«Rispettiamo la sentenza ma mastichiamo amaro. Non volevamo contentini: sappiamo che nostro padre poteva essere salvato. Sappiamo anche che i consulenti del Pm si sono brutalmente smentiti sulle cause di morte di nostro padre. Il tribunale non ha potuto disporre la perizia perché il pm ha ostinatamente negato la modifica del capo di imputazione. Ha vinto lui, ma secondo noi non dovrebbe esserne fiero. Ci dispiace per nostro papà». E' ormai sera quando Elia e Rudra, figli di Aldo Bianzino commentano la condanna di una guardia carceraria, appena pronunciata, per omissione di soccorso e falso e omissione di atti d'ufficio (un anno e mezzo con pena sospesa) perché non solo fece orecchie da mercante alle suppliche del detenuto ma perché trafficò coi registri, li truccò e, intorno a lui, l'amministrazione carceraria si sarebbe fatta bastare le voci di un complotto di detenuti contro la polizia penitenziaria o la più banale versione del campanello rotto per censurare l'imbarazzo di una morte lenta e violenta. Hanno spiegato i legali e i periti della famiglia che Capanne è così vicino a un buon ospedale che salvarlo non sarebbe stato impossibile. E uno di loro, Fabio Anselmo, lo stesso dei casi simili di Aldrovandi, Cucchi ecc.., ha detto senza mezzi termini che la negazione del soccorso a una persona imprigionata altro non è che tortura, alla faccia dell'articolo 13 della Costituzione. E questo ci fa pensare ad altre pagine opache e recenti della malapolizia. Aldo Bianzino chiamava aiuto quella notte del 14 ottobre 2007 in cui era stato rinchiuso nel carcere perugino di Capanne per il possesso di alcune piante di canapa indiana nel suo casale di montagna. Ma l'agente penitenziario di servizio non voleva essere scocciato, probabilmente, così Aldo, pacifico ebanista torinese venuto sull'appennino umbro a cercare il suo pezzetto d'India, crepò per un'emorragia cerebrale detta subaracnoidea, una cosa che non è fulminante ma che si presenta come il più grande mal di testa della tua vita. Così hanno riferito i periti e così raccontano quelli del comitato Verità per Aldo per i quali il diritto negato di essere riconosciuti parte civile non è stata una ragione sufficiente per separarsi da Elia e Rudra e tutti i familiari di Bianzino. Hanno continuato a presidiare il processo e lo spazio pubblico perugino troppo tempo monopolizzato dal più celebre processo Knox. La notizia non vera, ma che gira nelle agenzie, è che Aldo Bianzino sarebbe morto per la rottura di un aneurisma cerebrale. In realtà nessuno dei periti dell'accusa ha mai esibito tracce dell'aneurisma anzi, alcuni di loro si sono inchinati in aula alle conclusioni dei periti della parte civile che non aveva escluso l'ipotesi di manovre violente sul corpo del detenuto, violente e precise, così da non lasciare tracce. La faccenda è stata però archiviata dal pm, lo stesso che fece arrestare Aldo e sua moglie Roberta. L'agente condannato, quello restato col cerino in mano, non c'entra con le botte, lui manco aveva le chiavi della cella. Ma solo 48 ore prima della condanna il tribunale aveva ricordato (leggi qui) che c'erano ancora profili di incertezza sulle ragioni della morte e, in qualche modo, aveva detto che il capo d'imputazione era striminzito al punto da non sapere se poteva essere possibile una sentenza. Invece la sentenza c'è stata e la notizia vera è questa: che si rinuncia alla giustizia e alla verità sul caso Bianzino dopo un processo che ha visto 65 domande sulle 120 formulate dal pm centrate sulle cause della morte ma poi ha rinunciato a trasformare il capo d'imputazione aggiungendo l'aggravante che avrebbe consentito di capire perché un uomo entrato in galera in perfetta salute sia crepato in poche ore. L'attenta lettura delle motivazioni consentirà alle parti un eventuale ricorso. Visto da un'altra angolazione è «un piccolo passo avanti verso la verità», come lo ha definito Cinzia Corbelli, un'avvocata anch'essa di parte civile. I figli di Aldo Bianzino, Elia e Rudra hanno ascoltato la lettura della sentenza per mano e poi si sono abbracciati. |