Scaroni: "Mi manca la forza per raccontare il pestaggio" |
FONTE: Brescia Oggi |
Ospite di Onda d’urto il tifoso del Brescia ridotto in fin di vita da alcuni poliziotti della Celere a Verona. |
«Non ho la forza di raccontare quello che mi è successo, perché fa ancora troppo male». Paolo Scaroni è intervenuto così ieri sera, alla festa di Radio Onda d’urto, prima di ringraziare tutti i presenti e passare la parola a Diego Piccinelli, uno dei responsabili storici della Curva nord. L’occasione è stato un dibattito intitolato «All cops are … numbered», in cui si è discusso dell’opportunità di rendere riconoscibili gli agenti di Polizia durante le manifestazioni con sigle identificative. Alla serata hanno partecipato anche l’avvocato Flaminio Maffettini di Amnesty International e Italo Di Sabato, dell’Osservatorio sulla repressione. La storia di Paolo Scaroni è nota. Il 24 settembre del 2005 Paolo fu picchiato dalla Celere di Bologna alla stazione di Verona, dove gli ultras bresciani si erano recati per la partita contro l’Hellas. Paolo rimase in pericolo di vita per mesi, e oggi riporta ancora i danni di quel pestaggio: segni che non se ne andranno mai, e che limiteranno per sempre la sua vita. Quell’episodio – anche grazie alla testimonianza di una poliziotta che, indagando sui colleghi, ha scoperto insabbiature, filmati cancellati, prove nascoste – ha dato vita a un processo, che – iniziato a settembre del 2011 – ha portato alla sbarra otto poliziotti indagati per lesioni gravissime. PRENDENDO SPUNTO dal caso di Paolo, i relatori, introdotti da Umberto Gobbi di Radio Onda d’urto, hanno tracciato dei parallelismi con altri casi in cui le forze dell’ordine sono state messe sotto accusa: tra questi, l’irruzione nella scuola Diaz durante il G8 di Genova e le vicende di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi. «Gli alti dirigenti della Polizia, che organizzarono la montatura della Diaz, sono stati condannati per falso aggravato e saranno interdetti per cinque anni, ma non hanno fatto un minuto di carcere, per un massacro che portò due manifestanti sull’orlo della morte, e altre 60 persone ricoverate per le percosse – ha notato Gobbi -. Una vetrina vale più della vita di Carlo Giuliani, o delle lesioni permanenti ai danni dei manifestanti». «Quello che è successo a Paolo potrebbe succedere a chiunque, ci sono tanti esempi che lo dimostrano – ha esordito Piccinelli -. Lo stadio è diventato un laboratorio di repressione, perché pochi si schierano con noi e si respira aria di impunità nei confronti delle forze dell’ordine; nel loro caso, è difficile capire chi è stato, perché agiscono a volto coperto, mescolati con altri reparti della celere». Sul processo, il leader della Curva ha sostenuto che «la speranza è che si crei un precedente, che qualcuno di loro venga ritenuto responsabile; la battaglia è il numero di identificazione, perché se quei poliziotti l’avessero avuto, non si sarebbero comportati in quella maniera, e sarebbe molto più facile individuare le responsabilità. Questo anche per rispetto verso i poliziotti che svolgono il loro lavoro con serietà». AMNESTY International sostiene da anni questa battaglia per il numero identificativo per le forze dell’ordine. Maffettini ha spiegato che «Amnesty chiede che queste persone siano formate: le forze dell’ordine a volte hanno sbagliato perché non sapevano come agire. Abbiamo fatto corsi con la Polizia: chiediamo che tra le materie studiate ci siano i diritti umani, per comprendere la gravità di certe condotte». Inoltre, l’associazione chiede la creazione di un organismo indipendente di monitoraggio per le operazioni di polizia e nei carceri, perché «ogni anno nel rapporto stilato da Amnesty vengono messi in evidenza i soprusi delle forze dell’ordine in Italia». Secondo Di Sabato, la violenza deriva «dalla volontà di creare una giustizia di classe». Quanto al processo, il 7 dicembre saranno ascoltati gli imputati e potrebbe arrivare la sentenza di primo grado: «Speriamo che sia finalmente fatta giustizia», ha detto Piccinelli. |