Senato. Sono le camere a "vigilare" sulla polizia oppure accade il contrario? Le preoccupazioni infondate degli apparati di sicurezza insabbiano il divieto e impongono il dietrofront ai partiti. L'unanimità raggiunta dai gruppi in commissione dura pochi giorni, l'aula di Palazzo Madama ci ripensa e chiede più tempo per il nuovo reato. Basta con un'ipocrisia che dura da decenni. Si ha un bel dire che l'introduzione del reato di tortura è una questione di civiltà: viviamo in un paese nel quale il parlamento gioca da anni a rimpiattino e non si vergogna d'apparire sia impotente che meschino. Impotente, perché la discussione va avanti da più legislature e ogni passo avanti verso l'approvazione di una legge viene rapidamente azzerato con astute operazioni dell'ultimo minuto. Meschino, perché la questione di civiltà viene smontata con un argomento così becero da non sembrare vero: "Dobbiamo tutelare le forze dell'ordine", dicono gli avversari della legge, come se la punizione della tortura - ahinoi documentata in questi anni numerose volte - fosse una vessazione per chi veste una divisa e non un sacrosanto principio di giustizia e di tutela di beni primari come la dignità delle persone e la credibilità dello stato. È successo anche stavolta. Non si è fatto in tempo ad annunciare l'approvazione all'unanimità in commissione giustizia al senato di un nuovo testo di legge (peraltro tutt'altro che ottimale, a mio modesto giudizio), che è arrivata la marcia indietro. Il testo torna in commissione e andrà rivisto, perché un gruppo di parlamentari (di centro e centrodestra) teme che il testo così com'è, anzi com'era, potrebbe essere usato "strumentalmente a danno delle forze dell'ordine" (Gasparri dixit). La verità è che abbiamo un parlamento così debole, così lontano da una cultura autenticamente democratica e costituzionale, che forse è meglio lasciar perdere e rinviare tutto a tempi migliori: in queste condizioni, nella migliore delle ipotesi, avremmo una mediocre e alla fine inutile legge sulla tortura.
L'impegno tradito Mancano le condizioni, in questo scorcio di legislatura e più in generale in questo contesto politico, per approvare riforme davvero democratiche. E dovremmo chiederci perché lo spauracchio della minaccia alla operatività delle forze dell'ordine sia agitato con tanta disinvoltura e tanta efficacia. La risposta è che tale perversa diffidenza verso il principio di lealtà e responsabilità istituzionale di fronte alla legge e ai diritti dei cittadini, riflette la distorsione del rapporto fra apparati di sicurezza e organi elettivi. I secondi dovrebbero esercitare sui primi un legittimo quanto necessario "controllo democratico", ma da anni avviene semmai l'opposto, con i vertici degli apparati che tengono sotto scacco parlamenti e governi. Non è un caso che le obiezioni al testo di legge uscito dalla commissione siano state sostenute soprattutto da due parlamentari che provengono dalla polizia di stato: Achille Serra, a lungo questore e prefetto, oggi deputato Udc (ma eletto nelle file del Pd), e Filippo Saltamartini, segretario nazionale del sindacato di polizia Sap prima d'essere eletto senatore dal Pdl. Entrambi hanno contestato sia alcuni dettagli del testo di legge, in particolare le parti sulla tortura psicologica, sia la necessità tout court di introdurre nell'ordinamento il reato di tortura, poiché il codice conterrebbe già le sanzioni necessarie. È una tesi risibile e basterebbe ricordare ciò che hanno scritto i giudici del tribunale di Genova nella sentenza che ha inflitto decine di condanne (quasi tutte cadute in prescizione) per gli abusi sui detenuti nella caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001. Hanno scritto che il processo è stato ostacolato da una precisa lacuna dell'ordinamento: la mancanza di uno specifico reato di tortura.
Un reato specifico è necessario La legge sulla tortura, in questo frangente storico, ha sia una dimensione pratica - quella indicata dai giudici del processo Bolzaneto -, sia una dimensione politico-istituzionale: si tratta di stabilire se vogliamo o no affrontare la crisi economica e istituzionale in corso, che è anche una crisi di legittimità democratica, mantenendo dritta la barra dei diritti. Dobbiamo domandarci se è ancora possibile accettare che diritti fondamentali e garanzie stabilite a livello internazionale siano trascurabili e quindi rinviabili sine die perché le forze di polizia si sentirebbero minacciate da una loro formale tutela. Dobbiamo chiederci se è possibile accettare la chiusura corporativa delle forze di sicurezza, che proprio in questi mesi, di fronte ai clamorosi e umilianti esiti dei processi seguiti al G8 del 2001, con condanne senza precedenti e l'estromissione per via giudiziaria di altissimi dirigenti di polizia, hanno reagito con un misto di viltà e arroganza. Il capo della polizia è rimasto al suo posto senza dare il minimo segnale di consapevolezza della gravità dei comportamenti tenuti dai suoi uomini a Genova e durante il processo Diaz, il sottosegretario Gianni De Gennaro è arrivato a esprimere solidarietà con i condannati. A fronte di tutto ciò, le forze parlamentari sembrano inermi e prive di argomenti. Non osano agire e quando agiscono stentano ad andare fino in fondo. Lo stesso testo sulla tortura approvato in commissione è una dimostrazione di debolezza della cultura democratica nel nostro paese.
Tre critiche al testo Pur di raggiungere l'unanimità, si è accettato di cambiare il testo originario in tre punti fondamentali. 1) È caduto il principio - che altrove è pacifico - secondo il quale la tortura è un reato specifico del funzionario pubblico (si temeva, ancora, che i vertici di polizia si sentissero minacciati...); 2) È stata cassata la norma che istituiva un fondo per la tutela delle vittime: norma sacrosanta, se pensiamo a quanto sono gravi e durature le menomazioni che colpiscono chi subisce tortura; 3) Non è stato introdotto il principio che la tortura è un reato che non può mai andare in prescrizione. Il testo uscito dalla commissione era quindi tutt'altro che perfetto. Ma era "il massimo che si poteva ottenere", hanno osservato i senatori del Pd. È sicuramente così, ma si è subito visto quanto fosse fragile la mediazione. Vista la materia, visti i precedenti (anni e anni di fallimenti) e considerata la delicatezza della questione, che investe i rapporti fra cittadini e istituzioni, il livello di tutela dei diritti fondamentali, la trasparenza e la responsabilità delle forze di sicurezza, credo si possa arrivare a una conclusione: non è più tempo di affrontare temi del genere nel chiuso delle aule parlamentari. Tutta la discussione è avvenuta in commissione al senato, senza il coinvolgimento non tanto dei cittadini ma nemmeno delle maggiori forze politiche, che in nessun momento hanno avvertito la necessità di rendere pubblico il dibattito in corso, gli ostacoli esistenti, le mediazioni in itinere.
Serve una mobilitazione vasta Una discussione pubblica non potrebbe che aiutare l'approvazione di una buona legge contro la tortura. E di una buona legge, accompagnata da una discussione trasparente e approfondita, hanno bisogno le nostre istituzioni e in particolare le forze dell'ordine, che con il silenzio, le mediazioni al ribasso, l'accettazione di condotte proterve, stiamo spingendo verso una pericolosa zona di opacità. Una democrazia in crisi, qual è la nostra, ha bisogno di più democrazia. Forze di polizia soffocate da decenni di corporativismo e autoreferenzialità hanno bisogno di una riforma democratica. In attesa di un parlamento migliore di questo, è necessario fare cultura, preparare progetti, stimolare partecipazione. Non ci sono scorciatoie. A questo servirà, anche, il convegno convocato venerdì prossimo a Firenze. |