Mi tremano i polsi, ho la bocca secca, lo sguardo inebetito. Mi trascinano per il corridoio mi colpiscono alle gambe, alle braccia, sulla testa, cercano di farmi cadere. Ma non cado. Non sento più nulla, ormai, dopo le botte subite dalla polizia al momento dell’arresto: la calibro 9 puntata in bocca e poi sbattuta sul cranio, la disperata difesa finita in un pestaggio senza regola, la terrificante stretta alla gola che provocò la perdita dei sensi. Le interminabili ore di fermo, nella Questura di Arezzo, insieme ai miei amici. Ma il peggio, purtroppo, doveva ancora arrivare... e quello fu solo l’inizio di una giornata nera. Tutto incomincia intorno alle 2 e trenta del mattino. Il lunghissimo fermo di polizia si tramuta in arresto grazie alla firma del giudice. E così, due per volta, veniamo tradotti in prigione, regolarmente ammanettati. Mi trascinano dentro una cella, il cancello rimane aperto. Davanti a me, una scrivania, un agente della polizia penitenziaria. Dietro di me, un altro, anche lui in divisa, che mi fa sentire il fiato sul collo, mi schiaccia verso la scrivania. “Svuota le tasche, stronzo – dice quello di fronte a me – fai vedere un po’ cosa c’è qui”. Ricevo il primo pugno sul viso, a freddo, il secondo da dietro, alla nuca. La gamba del secondino che mi sta alle spalle s’infila tra le mie e perdo l’equilibrio e mi colpisce con la suola dell’anfibio sulla testa. Mi rialzo subito e mi rimetto nella stessa posizione di prima. Mi asciugo il viso con il dorso della mano. Sono frastornato ma rifiuto di esprimere qualsiasi tipo di sensazione. “Ora dammi il portafogli, terrone di merda, poggia tutto qui e spogliati che ora ti diamo una bella ripassata”. Ingoio lentamente ma non lascio intendere di aver paura. Non voglio dare alcuna soddisfazione. I miei occhi sono gonfi di rabbia ed incredulità ma non mi stupisce quel tipo trattamento. Sapevo che nelle carceri non usano i guanti bianchi. Non rispondo ad alcuna provocazione perché so che cercano proprio questo, i vigliacchi. “Allora, fai in fretta, calabrese di merda, pantaloni, scarpe, mutande, tutto”. Non accelero i tempi ma eseguo le indicazioni. Mi spoglio, lascio cadere gli abiti sul pavimento freddo della cella di sicurezza e attendo gli eventi. “Bene, bene, ora piegati sulle braccia, vediamo se nascondi qualcosa nel culo. Noooo, peccato! Ora ci divertiamo un po’. Scegli il manganello e mettiti faccia al muro”. Non rispondo ma intuisco al volo. Sono completamente nudo, non capisco cosa stia succedendo ma so di essere capitato in brutte mani. Penso alla mia famiglia e vado avanti. Non mollo. Ho solo il tempo di riconoscere un agente della polizia stradale che si gusta la scena dall’ingresso della cella con un ghigno di soddisfazione, prima di essere investito da una lunga serie di manganellate che faranno di me un corpo pieno di dolori. Resisto, ma è dura. Non so dove trovare la forza per non urlare, per non reagire, ma capisco che sarebbe peggio e incasso. Un’umiliazione terrificante. Torturato così brutalmente da due perfetti sconosciuti in una prigione della Stato italiano, sede del Vaticano, luogo di artisti e poeti: il bel Paese! Non ci credo più! In quel momento sento che il diritto non esiste, è tutta una finta convenzione per dimostrare l’esistenza di una democrazia balorda. Chi è stato a Genova l’anno del G8 sa di cosa parlo ma non ho il tempo per pensare, devo difendermi in qualche modo dai colpi. Cerco di proteggere il capo, le tempie con le braccia e lascio più scoperti i fianchi. Avrò ricevuto almeno una cinquantina di manganellate, intervallate da ceffoni, pugni, calci spintoni, insulti, di tutto. Sono veramente a pezzi ma ho ancora la forza di stare in piedi, sarebbe una resa cadere giù come una pera e non intendo dargli per nessuna ragione al mondo questa soddisfazione. Ho le costole che mi fanno malissimo, la testa che mi scoppia, le braccia livide, le gambe piene di ferite. Mi sento una merda ma ho la testa alta e nonostante tutto sono lucido. I vestiti strappati, la faccia segnata, arrossata, gonfia. E’ un vero massacro. Emetto qualche gemito di dolore ma l’unica cosa che temo veramente è di essere sodomizzato, si, sodomizzato. Non mi stupirebbe affatto. Ormai mi aspetto di tutto. Sono due mostri assetati di violenza. Sento la puzza dell’alcol uscire dalla bocca di uno dei due, da quello che stava dietro la scrivania. Nei giorni seguenti della detenzione, infatti, conobbi le sue gesta infami attraverso la voce di alcuni detenuti che lo chiamavano “l’ubriacone”, uno pseudonimo mai tanto azzeccato. Ma l’altro con i baffetti non era da meno. Li rividi solo giovedì, il giorno della scarcerazione e incrociai i loro sguardi. Comunque, è l’unica cosa che riesco a fargli capire di non provare a fare, e fortunatamente questa sorte mi viene risparmiata. Ma è solo questione di fortuna, lo so. Ora sono esausto. Non mi fa più male nulla. Non sento neppure le loro voci, la puzza dei loro corpi, lo sguardo crudele, la cattiveria. “Rivestiti, merda – ripete sorridendo uno dei due - ti è piaciuta questa accoglienza? E ancora è solo l’inizio!” Non m’importa più nulla. Tengo il mento alto, cerco lo sguardo di entrambi per non dimenticare i loro occhi e ricomincio a vestirmi. Da quel momento, nessuna cosa mi farà più paura. Neppure l’idea di finire in cella con chissà chi. Ogni cosa sarà sicuramente più umana di quelle due bestie senza cuore – penso – e infatti sarà così. Mi rivesto con calma senza fare alcun cenno col viso ma sento che quelle botte hanno mosso qualcosa dentro di me. I miei occhi non saranno più come prima. Il mio sorriso non sarà più candido come una volta. Ora so cos’è la violenza. Ora so cosa vuol dire sentirsi imprigionato, torturato. Il mio corpo aveva resistito, la mia mente aveva tenuto, la mia vita proseguiva, diversamente, ma proseguiva. Dio solo sa per quanti mesi sono stato colto da fitte improvvise, sulla testa, quante ripercussioni psicologiche ho dovuto subire, e per quanti anni dai mie occhi non è uscita una sola lacrima. Come se il mio cuore si fosse raffreddato di colpo. Porto ancora alcune cicatrici sul corpo. Sono nuovamente con i miei abiti, mi indicano l’uscita: “Vai, vai, verso di là, ora ti conduciamo nella celletta più bella, insieme a tanti amici neri a cui piace molto la pelle bianca come la tua, al terzo raggio”. Il corridoio è buio, vedo poco ma continuo a camminare. Salgo una rampa di scale, la seconda la terza, la quarta, arriviamo all’ultimo piano. Nel tragitto, ricevo calci e spintoni, non so da chi, rischio anche di cadere per le scale ma riesco a tenermi stretto al passamano. “Ecco la tua cameretta!” Apre prima il portone, poi il cancello e mi spinge dentro con un calcione sulla schiena: “Entra stronzo ora sei a casa, buona fortuna!”. Sono all’incirca le 3 e trenta del mattino e tutto sembrava volgere nel peggiore dei modi e invece, quando tutto sembra perduto riappare la luce. Da quel momento, inizierà una nuova storia che parla invece di tanta disperazione ma anche di tanta umanità, fratellanza, sofferenza, speranza. La storia di uomini reclusi, a volte soli, abbandonati da tutti, che lottano per spicchi di libertà e che dividono pezzi di mattonelle. Ma questa è un’altra storia di cui parlerò più avanti. Di tutta questa storia, non raccontai nulla, giovedì mattina, al giudice per le indagini preliminari, per paura di ritorsioni, all'interno dell'Istituto penitenziario. Accennai solo alcuni flash, nulla di più. Ma quando riabbracciai la libertà denunciai tutto alla magistratura allegando una corposa documentazione costituita da certificazioni mediche e materiale fotografico relativo alle ferite riportate sul corpo. Di quella denuncia non si saprà più nulla. Nessun testimone, nessuna prova e tutto finirà nel dimenticatoio. Andrà avanti, invece il procedimento penale a nostro carico che fino ad ora ha prodotto in cifre: 4 giorni di carcere, 14 giorni di domiciliari, un mese di obbligo di dimora, un Daspo di tre anni e una condanna in primo grado a un anno e dieci mesi di reclusione (per chi, come il sottoscritto, ha seguito il rito ordinario), con la pena già condonata perchè coperta da indulto. Tutti gli imputati faranno ricorso in Appello. Questa che avete appena letto è la storia di Antonio che oggi ha trentacinque anni, fa il giornalista, vive la sua vita normalmente, non ha dimenticato una virgola di quei tragici momenti ma riesce a vivere lavorare, amare, gioire e perfino a piangere. Questa, in verità, è la mia storia, la storia di un ultras come tanti che una domenica come tante decide di partire per seguire l’Us Catanzaro 1929. E’ la storia di un trentenne che rimane vittima di un arresto e di violenze inaudite assolutamente illegali, da parte di indegni rappresentanti dello Stato, e fa ritorno a casa solo quattro giorni dopo, deturpato nel fisico e nello spirito. Era il 23 maggio 2004, il giorno della partita d’andata della Supercoppa di serie C, tra Arezzo e Catanzaro. Il bilancio finale fu da prima pagina: 19 arresti e numerosi feriti, in seguito ad alcuni tafferugli scoppiati, al termine del match, fuori dallo stadio, tra opposte tifoserie e forze dell’ordine. A me andò bene, a Stefano Cucchi, no! In un Paese civile e democratico che rifiuta qualsiasi forma di violenza e di discriminazione, non è in alcun modo accettabile. La violenza è bandita dalla Costituzione, aldilà del capo d’imputazione e di qualsiasi tipo di condanna inflitta. E nessuno, dico nessun uomo sulla terra, può farne uso. Per questo è sacrosanta la ricerca di tutta la verità. La magistratura ha il dovere di fare giustizia. I responsabili della morte di Stefano Cucchi devono pagare. |