Il 27 febbraio del 2011 Davide Tenerani, carrarese di 24 anni, viene fermato insieme ad altre tre persone per l’omicidio di Jonathan Esposito, spezzino. I quattro di Carrara arrivano in macchina, importunano una donna, Esposito reagisce e viene accoltellato. Nessuno dei cinque è legato a gruppi ultrà delle proprie città. Il fattoavviene a 7 km dallo stadio, dove quel giorno si era giocata Spezia-Pergocrema 2-2. La Carrarese quell’anno non milita nello stesso campionato dello Spezia. «Jonathan Esposito è morto accoltellato davanti a un locale di La Spezia, durante una rissa tra tifosi rivali dello Spezia e della Carrarese, innescata dalle avances a una ragazza e da qualche bicchiere di troppo. [...] Fra spezzini e carraresi esiste da sempre una rivalità, che vede nel calcio momenti di forte tensione». Il calcio e il tifo in questo episodio non c’entrano nulla; eppure, che siano UltraS o ultrà o tifosi o Boys o Irriducibili o suore in gita all’Olimpico, le generalizzazioni mediatiche portano i sostenitori di una squadra a diventare degli ultras e poi gli ultras a essere responsabili di qualsiasi efferato atto. Questo, secondo una ricerca del dr. Alberto Testa intitolata The Italian media and the UltraS, avviene per due ragioni. «Un eccesso di copertura mediatica è una linea guida nel complicato rapporto tra media e UltraS; la densa copertura è una disfunzione che può diventare pericolosa. L’eccesso si focalizza soprattutto, ma non esclusivamente, sulle azioni negative, vere o percepite. E questo sembra radicato in due fattori; il primo è economico, semplicemente il bisogno di vendere notizie. L’altro è specifico dell’identità UltraS, vale a dire la loro logica e caratteristica come movimento di opposizione». Gli UltraS – che nella distinzione di Testa sono i tifosi di orientamento neo-fascista – non sono ultrà. Nel rapporto UltraS-media c’è una conca, tra la necessità di fare notizia e la volontà di essere rappresentati al di fuori del sistema, nella quale lo stereotipo prolifera quasi naturalmente. Per quanto riguarda invece gli ultrà, che di politico e antisistemico spesso non hanno nulla, le responsabilità degli organi d’informazione sono più gravi: gli ultrà vengono mediaticamente trascinati fuori dal loro contesto, lo stadio, e ricoperti di usi e costumi che non sono loro propri. L’essenza territoriale dei loro gruppi, che dal punto di vista sociologico rappresenta una complessità ben più articolata dei trafiletti di giornale con cui viene iconizzata, viene sistematicamente bypassata, traslocata e rinchiusa in un altro territorio: la violenza. Tuttavia non è così semplice addossare le colpe della generalizzazione ai media: il percorso che trasforma la notizia in errore stereotipato avviene per gradi. Ciò che appartiene allo stadio alla curva e alle emozioni del tifo, ciò che biologicamente dovrebbe vivere solo nei 90 minuti della partita, innanzitutto viene adottato da chi sugli spalti non ci mette nemmeno piede. Così a gennaio dello scorso anno lo juventino Marco Borriello viene criticato con uno striscione dalla curva bianconera per essere un “mercenario”. E Massimo Mauro commenta: «Non capisco perché fenomeni extracalcistici vengano rappresentati dagli striscioni, in questo caso, ingiusti nei confronti di un professionista». Il pezzo di tela e il suo messaggio, posizionati prima della partita e tolti dopo, non avrebbero altro luogo che la curva dell’Olimpico di Torino. La polemica però rimbalza dal commentatore Sky e si amplifica in rete, trovando alloggi non suoi, sedi che non ha mai voluto. La velocità del web viene obbligata continuamente a espandere il significato dei gesti e dei cori che non hanno nessuna intenzione di estendersi al di fuori del campo da gioco. La «copertura» mediatica diventa forzatura, genera polemiche attorno a episodi, come la poca eleganza della curva veronese nei confronti di Morosini – il vilipendio dei morti vale anche per le vittime dell’Heysel? -, e le prolunga per settimane. Portare fuori dalle mura di uno stadio striscioni, cori, gesti non è più così difficile, ma rimane lo scalino più importante della scala che porta all’errore. Per questo, quando i tifosi si muovono e portano spontaneamente i loro messaggi fuori dagli impianti, si concede un grosso favore a chi abitualmente li critica. Durante il derby Roma-Lazio del 2004 due capi ultrà delle tifoserie si recò in campo per avvertire i capitani della morte (falsa) di un bambino fuori dall’Olimpico e la partita fu sospesa. Si ricordano ancora i titoli di Repubblica, Corriere e Gazzetta che il giorno stesso sui loro siti, e il giorno dopo nelle edicole, parlarono di “complotto”. Il Messaggero addirittura si spinse in un’analisi: «Ultrà come mafiosi». Il gesto dei capi ultrà certo fu frainteso, ma questo non è giornalisticamente accettabile: il fraintendimento è una mancanza di verifica ed è figlio della supposizione. Le sentenze del 2007 non solo confermarono l’inesistenza di un complotto, ma diedero inizio alla ruota di scarcerazioni e assoluzioni per chi fu arrestato negli scontri con la polizia fuori dallo stadio. Quando lo scorso 21 settembre alcuni ultrà rossoneri si recarono dal patròn del Milan e presidente del Consiglio, Berlusconi, per confermare il proprio sostegno alla squadra e per discutere su come “uscire dalla crisi”, l’Amaca di Michele Serra recitava: «Le tifoserie ultras sono entrate a fare pare quasi istituzionalmente della gestione del calcio italiano». Eccessivo e scorretto, perché “tifoserie ultras” comprende tutti e nessuno e in ogni caso nessun ultrà ha ambizioni di gestione del calcio italiano. Ma tanto basta a poggiare il calco delle intenzioni sul nome “Ultras”. Al di là degli episodi più gravi e importanti, quelli che giornalisti scrupolosi si affannano a raccogliere in video di 5 minuti su Youtube, la connotazione negativa degli ultrà avviene gradualmente. Serra in particolare è un abitudinario di questo modus operandi: chi legge i suoi pezzi incontra frequentemente la parola “ultras” associata a contesti completamente diversi. « [...] di fronte agli ultras (co-protagonisti, per altro, di tutti o quasi gli episodi di violenza politica degli ultimi anni, dalle aggressioni fasciste e omofobe ai saccheggi e agli incendi della primavera scorsa a Roma) [...] Gli ultras non sono più un problema di ordine pubblico, sono un problema di democrazia». Nello stesso articolo del 25 aprile scorso si legge anche: «[...] l’incredibile sequestro di uno stadio intero ad opera di una cosca di ultras del Genoa». Quattro mesi dopo, parlando delle proteste di Taranto, la rubrica termina invece così: «La vita adulta non funziona così. Non è facile spiegarlo agli ultras, non solo di calcio». Lavorare ai fianchi l’opinione pubblica è il secondo passo del percorso verso la generalizzazione: si associa la parola “ultras” ad altri contesti per connotarla negativamente. Già abbiamo detto che non tutti gli ultrà sono politicizzati (perciò non ha senso il calderone del primo stralcio); inoltre i tifosi non si raggruppano per “cosche” né hanno a che fare con le proteste tarantine. Inserirli dove non c’entrano diventa pian piano una prassi. Nel maggio 2010 l’Italia viene bocciata da Platini e un articolo di Franco Ordine dal titolo “Alzi la mano chi si meraviglia” argomenta così la decisione: «Un contributo negativo alla causa è arrivato anche dalla questione ultrà». Su RepubblicaRoma.it del 2 settembre 2010 un ultrà rimane ferito da un’esplosione perché «forse preparava una bomba carta per lo stadio». Il 2 settembre 2010 fu però un giovedì e in programma all’Olimpico non c’erano partite di calcio: in che modo una bomba carta va preparata necessariamente per lo stadio? L’associazione violenza-ultras diventa categorica in occasioni come la manifestazione degli indignados italiani il 15 ottobre 2011. I giornali del giorno dopo scrissero “ultras” in ogni occhiello con cui identificavano i protagonisti degli scontri; ma i fermati o condannati Valerio Pascali, Giuseppe Ciurleo, Lorenzo Giuliani, Giovanni Caputi, Leonardo Vecchiolla non avevano e non hanno nulla a che fare con le tifoserie organizzate. Lo scorso 22 ottobre un litigio personale tra tre tifosi del Venezia finisce con un cranio sfondato, forse da una spranga, ma il Messaggero titola così: «Martellate tra ultras del Venezia: 28enne arrestato con l’accusa di tentato omicidio» e racconta di uno «scontro avvenuto ieri tra le due fazioni della Curva sud e del Gate 22: feriti due giovani di 24 e 21 anni, uno è in gravi condizioni». Altro esempio è Ilvo Diamanti, un affezionato dei sondaggi Demos-Coop per Repubblica. «Le stesse tifoserie, al di là delle posizioni estreme degli ultrà, mostrano orientamenti politici precisi. Sinistra: i tifosi della Fiorentina. Centrosinistra: la bandiera del Napoli. Centro: quella bianconera. Centrodestra: le squadre milanesi». Da Repubblica e Diamanti a Dazebaonews.it e Ramona Giattino, che si occupa della festa in piazza dei tifosi laziali per i 112 anni del club: «Sono i cosiddetti Ultras, una delle lobby più potenti e influenti della classe media italiana, i “padroni dello stadio”». Semplificazioni di questo tipo hanno progressivamente indotto a pensare che gli ultrà siano un blocco compatto di pietra. Ma la fame di vendere notizie è inesauribile. E avere di fronte un sampietrino chiamato “ultras” e averlo già macchiato di negative accezioni, porta naturalmente al punto dopo: ingigantire i fatti è il gradino successivo. O il gradone. Pescara-Lazio di quest’anno è stata preceduta dalla diffusione di una foto di un manifesto: recava il disegno di un cacciatore che spara a un’aquila biancoceleste. Apparsa su un sito e rilanciata da alcuni quotidiani, ha scatenato la voce che, spargendosi in rete, ha dato seguito a immediate reazioni: chi accusava gli ultrà pescaresi di antisportività e chi intimava loro di togliere l’oggetto dalle strade. «Ritornate nella fogna», «gli ideatori… sarebbero da denunciare per istigazione a delinquere», «vittoria a tavolino come con la Roma». Il manifesto però nelle strade c’è stato nel 1992 e quella era una foto vecchia di vent’anni, tirata fuori per l’occasione. Nell’ottobre del 2010 alcuni teppisti «s’introducono nello stadio e devastano il San Paolo». I siti d’informazione partenopea riportano: «Si indaga quindi nel tifo violento. Alcuni gruppi organizzati, ostili alla società per la tessera del tifoso». Ma il giorno dopo su calcionapoli24.it si leggono ulteriori particolari dell’ “organizzazione” dei teppisti: «Sono entrati sul campo del San Paolo e hanno giocato una partitella tra amici con il super santos. I ragazzini hanno ripreso l’irruzione con il telefonino». Se di fatti non ce ne sono, spesso si scrive in previsione di qualcosa che “potrebbe accadere”. Così, se i tifosi del Partizan di Belgrado arrivano a Milano per una sfida di Europa League contro l’Inter, la Gazzetta dello sport si preoccupa di lanciare l’allarme, senza però «fare del terrorismo mediatico». L’evoluzione dello stereotipo arriva a imporsi su fatti che non sono mai accaduti. In questa climax non cronologica, Roma-Napoli del 2009 è l’apice. Dal capoluogo campano parte un treno assaltato dagli ultrà partenopei: «Un vero e proprio assalto al treno, in mattinata, alla stazione di Napoli. Spintoni, tensioni, urla: così per oltre tre ore l’Intercity Plus 520, diretto a Torino, è rimasto sotto assedio di oltre mille tifosi azzurri che volevano raggiungere la capitale per la partita con la Roma, anche senza biglietto. I tafferugli hanno raggiunto il culmine quando un folto gruppo di ultras, privo del biglietto di viaggio, ha forzato i cordoni di controllo predisposti dalle Ferrovie dello Stato in collaborazione con le Forze dell’ordine ed è salito con la forza sul treno, azione che ha provocato la contusione di quattro dipendenti delle FS. Il tutto davanti ai passeggeri allibiti. I passeggeri dell’Intercity, quando si sono resi conto della situazione, non hanno avuto altra scelta che scendere dal treno». Ma le cose non andarono così. Il racconto, in Italia riportato solo da Oliviero Beha, di un giornalista sportivo tedesco, Reinhard Krennhuber, smentì l’accanimento dei media italiani sui tifosi azzurri. «Innanzitutto è scorretto dire che i tifosi del Napoli aggredirono e spinsero 300 passeggeri fuori dal treno. Non abbiamo nemmeno visto alcun controllore attaccato. Il treno doveva partire alle 9.24, ma dopo le 11.00 i responsabili di Trenitalia sono saliti a bordo e ci hanno detto di prendere un altro treno. Siamo partiti alle 12.30 in un treno completamente pieno. Quando siamo arrivati la partita era già iniziata da 52 minuti; una vergogna aver pagato il biglietto sia del treno che dello stadio. I tifosi frustrati hanno iniziato a demolire i bagni, ma non sono sicuro che i danni raggiungessero 500mila euro. Mi sembrano strane anche le notizie di gas lacrimogeni a Termini». È così si arriva all’errore. La differenza tra la notizia dell’intercity Napoli-Roma e quella dell’omicidio di Jonathan Esposito è il meccanismo automatico che, nella seconda, porta a identificare l’ultrà con la violenza. La scorsa domenica di campionato, “complici” un gemellaggio e l’accordo tra le questure, ultrà e tifosi sampdoriani sono entrati allo stadio Tardini senza tessera del tifoso. La partita è terminata 2-1 per i padroni di casa e non ci sono stati scontri, violenze e neppure beghe. Il piano mediatico da decenni macchia e isola il tifo, valorizza i DASPO, le pene esemplari e le gogne; così risulta naturale eliminare dai giornali qualsiasi riferimento di non violenza ultrà e che, tra tutte le testate nazionali, l’unica a parlare della domenica di Parma sia stato il Corriere dello Sport. |