Paolo si avvicina con passo lento, noti subito la difficoltà nel più semplice dei gesti, in ogni suo movimento: ti stende la mano, poi ti dice “…dai che vinciamo, ce lo meritiamo!”. Paolo sa che la sua non è una battaglia personale; Paolo sa che la nostra presenza non è solo solidarietà; Paolo sa che quello che è successo a lui non deve succedere più a nessuno. Paolo ti tira fuori un sorriso sincero e forte e, guardandoti dritto negli occhi ti insegna che - sì, è vero! - possono toglierci davvero tutto, possono segnarci, ma, allo stesso tempo, infonde dentro di te la convinzione che il nostro spirito, la nostra grinta, la nostra dignità di Ultras e di uomini è viva e vegeta in noi, nelle nostre scelte, sempre. Paolo Scaroni era, fino al 24 settembre del 2005, un ragazzo come tanti: di lavoro faceva l’allevatore di tori ed aveva la passione per l’arrampicata su roccia. Ma Paolo Scaroni è anche un Ultras, un Ultras del Brescia. E quel giorno di settembre di 7 anni fa era in trasferta a Verona a seguire il suo Brescia contro l’Hellas. Finita la gara, nella stazione della città scaligera, mentre i tifosi bresciani si apprestavano a prendere il treno che li avrebbe riportati in Lombardia, ci fu una violenta carica da parte della celere che, senza che si fosse verificata alcuna intemperanza da parte dei tifosi stessi, spinse la sua furia cieca quanto immotivata fin dentro ai vagoni del treno dove, tra gli altri, si erano rifugiati anche famiglie con donne e bambini. Paolo, in un attimo, fu messo sotto dai manganelli, rigorosamente al contrario, di un gruppo di celerini che avevano deciso di sfogare tutta la loro rabbia su di lui: lo massacrarono. Durante quello che non riusciamo a definire se non, eufemisticamente, come un barbaro e vile pestaggio, Paolo fu colpito esclusivamente e ripetutamente alla testa. Entrò in coma e ne uscì, nonostante i medici l’avessero dato per spacciato, dopo 67 giorni di terapia intensiva. Da allora porta e li porterà per il resto della vita, i segni di quella giornata sul suo corpo: invalido per sempre, vivo per miracolo. La lunga battaglia per ottenere giustizia è partita dai suoi amici, dalla sua Curva, fino ad espandersi, man mano, ad altre realtà Ultras ed è stata, fondamentalmente, una corsa a tappe. La prima tappa di questa folle corsa contro tutto e tutti fu rappresentata dall’esigenza di portare a conoscenza più persone possibili, istituzioni comprese, di quanto era accaduto. Poi l’individuazione di chi, fra i celerini presenti quel giorno, fosse stato autore del pestaggio, cosa tutt’altro che scontata, perché l’identità dei componenti i reparti mobili in Italia - per chi non se ne fosse ancora accorto - è impresa pressoché impossibile in virtù delle vergognose lacune (leggi mancata introduzione dei codici di identificazione sulle divise) riscontrabili nell’ordinamento giuridico del nostro paese, contro il quale tanti gruppi Ultras, in primis quello di Paolo, stanno combattendo la loro battaglia. Grazie, tuttavia, alla caparbietà di chi ha continuato a battere i pugni contro un muro fatto di omertà, alzato ad arte dalle “istituzioni”, il cui unico interesse era quello di fare in modo che anche questa storia, come tante altre, finisse nel silenzio, si è arrivati ad avere un’indagine ed, infine, un processo. Il processo ha rappresentato sicuramente la prima vittoria di questa lunga battaglia. Sì, perché quando si “tratta di queste cose”, in un paese in mano a ladroni e puttane, non è forse un diritto pretendere giustizia, ma è sicuramente una vittoria avere anche e “solo” un processo, avere, forse, domani, dei colpevoli e non dei fantasmi senza volto e senza nome con un casco blu in testa e ciò non per facile giustizialismo, che noi conosciamo bene, applicato quotidianamente sulla nostra pelle, quanto per quell’esigenza di “certezza della pena” per chi, non importa se rappresentante lo stato, ha sbagliato ed è certo, al contrario, di rimanere impunito. Il processo è ad una svolta, forse epocale e si concluderà a Verona il 18 gennaio prossimo con le sentenze ai sette celerini imputati per lesioni gravissime e per i quali il pm ha chiesto, nell’ultima udienza, la condanna a otto anni ciascuno. Sarebbe il segno tangibile di uno storico cambiamento. Anche Paolo sembra convinto, quando ci congediamo, che qualcosa possa davvero cambiare in questo senso. “E’ stato importante avervi vicino oggi” ci dice, mentre ci salutiamo. Forse non immagina quanto lo sia stato per noi essere al suo fianco. |