Stabilire oggi se Valerio Marchi sia stato un illuminato fa sorridere. Non ci sono patenti da assegnare a nessuno. Soprattutto a coloro che, come Valerio, non hanno mai abdicato alla scorciatoia del consenso, al culto genuflesso del pensiero unico dominante, preferendo l’impervia strada della continua ricerca della verità, del sapere, del riscatto.
Valerio Marchi è stato un illuminato. Lo è stato in virtù di uno sguardo consapevole sempre rivolto più in là dell’oltre, rivolto a superare le semplificazioni dell’ovvio, dello scontato, del remissivo. È stato un illuminato in virtù del fatto che tutta la sua opera e la sua vita, poiché di intellettuale di strada stiamo parlando, è stata caratterizzata dalla fervente volontà di imporre le esistenze di centinaia di migliaia di giovani come oggetto di studio e non solo oggetto di cronaca, il più delle volte, nera.
Valerio ha voluto e saputo elevare a Storia sociale, culturale e politica gli eventi che queste centinaia di migliaia di giovani hanno provocato nel corso della storia dell’Occidente e in particolare nell’ultimo secolo, inserendola all’interno di una più generale e complessiva analisi storiografica, sociale e antropologica, edificata dal basso sulla scorta di un continuo processo di osservazione partecipata, empirica ed empatica allo stesso tempo.
Valerio spoglia la ricerca della morbosità della sociologia e dell’antropologia accademica che tende a studiare in vitro i soggetti obiettivo della propria ricerca, con l’occhio pruriginoso del voyeur in cerca di emozioni forti, ma pronto alla stigmatizzazione buonista e paternalisitica propria della maggioranza silenziosa che osserva, giudica e si augura punizioni esemplari e sanatorie di regime.
Valerio spiega, racconta, formula, contrasta, suggerisce, conferma, demolisce luoghi comuni, leggende metropolitane, pressapochismi barocchi, miopie genetiche, pregiudizi classisti e ci conduce in una caverna platonica dove è egli che gioca il ruolo del demiurgo che induce i prigionieri a spezzare le proprie catene e rivolgere il proprio sguardo ottenebrato al sole della verità che chiarisce e illumina.
Valerio ha rivestito il ruolo di intellettuale organico alla società in cui si è trovato a vivere e della quale ha deciso di studiare i fenomeni sociali più devianti e marginali, pericolosi e apparentemente irrazionali. Attraverso di lui prende forma anche la pratica del concetto di cultura popolare condivisa e diffusa a più livelli, valorizzando le esperienze editoriali indipendenti che hanno sostenuto la diffusione delle sue ricerche e delle sue teorie dapprima in un circuito prettamente antagonista, poi anche in quello mainstream. Il suo essere dalla strada alla cattedra non è segnato da un passaggio traumatico, figlio di un intrinseco tradimento borghese della natura stessa del maestro di strada, bensì frutto di un riconoscimento dovuto a un’alacre opera di ricerca pragmatica e visionaria al contempo. Perché Valerio non aveva in sé i crismi del ricercatore tout court, ma imbeveva il rigore scientifico dell’analisi con la passione, l’esperienza, il sogno, l’utopia, la lungimiranza profetica del militante consapevole e impegnato.
Il solco tracciato da Valerio è quello che ha consentito a decine di giovani ricercatori militanti, scrittori, giornalisti indipendenti, docenti universitari illuminati un approccio sistematico al fenomeno ultras, in particolare grazie al primordiale, completo e profetico Ultrà. Le sottoculture giovanili negli stadi d’Europa (Koinè, 1994).
L’importanza che la ristampa di Ultrà vuole sottolineare a vent’anni dalla sua prima edizione è quella di riconoscergli il ruolo di essere stato e di continuare a essere un testo fondamentale, enciclopedico, seminale, dal quale è potuta scaturire la messe di ricerche successive in grado di intercettare i mutamenti che quel fenomeno attraversava in virtù del suo essere coerente e co-agente alla società in continua trasformazione.
In questo testo Marchi dapprima procede in maniera sistematica a spiegare, classificare, raccontare le cause, le affinità e le differenze con il movimento hooligan britannico da cui quello italiano ha tratto ispirazioni, ma che non ha mai imitato fino in fondo poiché a sua volta fautore di uno stile e di una ideologia identitaria differente da quella anglosassone per evidenti ragioni antropologiche. Anzi, Valerio, dopo aver reso merito al movimento d’oltremanica di aver precorso i tempi dell’identificazione fra il calcio e le insorgenze giovanili e sottoculturali più significative, passa a un’analisi lucida dei meccanismi e delle peculiarità proprie del movimento italiano che, proprio in quel periodo, tra la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta, aveva raggiunto i suoi massimi livelli di risonanza mediatica, anche a causa della coeva, esponenziale crescita ipertrofica di un calcio industriale che, vivendo il suo boom economico – l’ingresso roboante come presidente del Milan nel 1986 di Silvio Berlusconi e l’identificazione totalitaria fra il dominus ed il suo club ne sono eloquente testimonianza – supera di slancio la gestione casereccia che era durata fino all’inizio degli anni Settanta. Il mondo del calcio italiano diventa di fatto la prima industria nazionale per mole di interessi economici, politici e sociali che ruotano attorno a esso. Si assiste alla sistematica differenziazione fra le squadre metropolitane e le altre, in particolare quelle storiche: Milan, Juventus e Inter, che potendo contare sui capitali investiti dai tycoon dominanti nell’economia nazionale (la famiglia Agnelli, Silvio Berlusconi e Massimo Moratti), tracciano un solco insuperabile per la maggior parte delle concorrenti, impossibilitate alla competizione nella campagna acquisti e negli investimenti complessivi. Si assiste quindi alla codificazione del termine «Sette Sorelle», ovvero quell’aristocrazia calcistica che si evidenzia nelle squadre che in pianta stabile occupano «il lato sinistro della classifica sul teleschermo», quelle che vincono il campionato con un’alternanza da centralismo democratico (un anno la Juve, uno il Milan, uno l’Inter) con rare eccezioni (il Napoli di Maradona e Careca, la Samp di Vialli e Mancini, le due romane a ridosso del Giubileo del 2000) e alla sistematica partecipazioen alle coppe europee, concedendo alle altre le briciole del pantagruelico banchetto di vittorie e diritti televisivi.
Il calcio eroico dell’Ascoli di Rozzi, del Pisa di Anconetani, del Catanzaro di Ceravolo, del Perugia di Castagner, del Vicenza di Fabbri e del Verona di Bagnoli viene progressivamente smantellato: dalla gestione familiare di presidenti-papà e dirigenti in canottiera e bretelle si passa ai manager bocconiani, agli addetti marketing con master a Londra e New York, agli uffici stampa, a un allontanamento progressivo fra il popolo degli stadi e i calciatori divi: il tifoso diviene cliente, la passione inizia a essere stigmatizzata come un fattore deviante e, all’esterno di stadi sempre più luoghi di concentramento passivi piuttosto che di libera espressione, si compilano i calendari in ossequio alle esigenze del palinsesto televisivo. Le sette Sorelle guardano a un supercampionato europeo, formato dalle potenze calcistiche continentali, società storiche e gloriose vengono annegate nei debiti e costrette a fallire, vengono creati esperimenti in vitro come il Chievo Verona (che si assesta stabilmente fra A e B pur non rappresentando molto di più che la Paluani, azienda di proprietà del presidente Campedelli), celebrando i successi sportivi non alla luce di una condivisione popolare della passione, bensì salutando una riuscita prova di lungimiranza economica negli investimenti.
Non è certo un caso, allora, se gli ultimi scudetti vinti da una provinciale risalgono al 1985 con l’eroico Hellas Verona di Bagnoli, Elkijaer e Briegel e alla Sampdoria di Boskov nel 1991. Poi lo sporadico caso di Roma e Lazio all’inizio del 2000, stop. E anche il fenomeno ultras, nato alla fine degli anni Sessanta come marginale identificazione estremistica al sostegno per la squadra di calcio, cresce a dismisura finendo per rivestire le caratteristiche non più di un semplice fenomeno minoritario, bensì di una sottocultura di massa, ricca di contenuti creativi e contraddittori, esplicativa di molteplici aspetti della società civile italiana ed europea all’epilogo del Secolo Breve.
Valerio Marchi in Ultrà si addentra, primo fra tutti gli studiosi e osservatori del fenomeno ultras, nell’analisi delle attenzioni specifiche che il sistema securitario di sorveglianza e repressione inizia a dedicare alla coercizione dei tifosi, affinando tecniche e metodologie e intensificandone la recrudescenza di intervento mirato, riconoscendone intrinsecamente la pericolosità sociale in quanto uno dei pochi reali luoghi di conflitto insorgente rimasto attivo nel tessuto sociale nazionale. Daspo, leggi speciali, attività di ordine pubblico antisommossa, laboratorio di repressione sociale, contestazione violenta nelle forme di comunicazione e nelle pratiche di conflitto, limitazione delle libertà di espressione, associazione, movimento, l’applicazione di norme anticostituzionali nei confronti degli ultras approvate con il plauso dell’opinione pubblica e del Parlamento, la semiotica del linguaggio reale e figurato delle curve, le logiche di appartenenza, il villaggio globale: tutto questo è oggetto, studio e previsione nello scritto di Valerio. Ciò che è stato poi serbatoio di approfondimento per le teorie successive dello stesso Marchi, da Nazirock a Teppa, da La sindrome di Andy Capp fino a Il derby del Bambino Morto.
Ed era ancora il 1994, anno della pubblicazione di Ultrà. Valerio non aveva ancora pianto Vincenzo Spagnolo, Sergio Ercolano, i ragazzi del treno di Salerno, Gabriele Sandri, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi…
Valerio, quando morì, il 24 luglio del 2006, chiudendo per l’ultima volta gli occhi sullo splendido orizzonte celeste e bianco di Polignano a Mare, non aveva denunciato la montatura giudiziaria attorno al caso Raciti, non aveva vissuto i meccanismi coercitivi attraverso i quali si sarebbe diffusa la tessera del tifoso né si era indignato per l’abominio che è costato la vita a Ciro Esposito. Ma lo aveva previsto nei suoi scritti, nelle sue interviste, nei suoi video e aveva cercato di spiegarlo, forse per poterlo prevenire ed evitare. Un motivo in più, in ogni caso, per immaginare Valerio nel luogo in cui molti lo hanno conosciuto – nella romana via dei Volsci – e pensare di poter ancora parlare con lui nel corso di una giornata del maggio 2015, mentre i solchi dell’altoparlante dei media di sistema, amplificati dall’esplosiva situazione sociale e politica, tentano di spacciare una realtà diversa da quella che parla di un’Italia sull’orlo del conflitto fra Governo e parti sociali.
Valerio, dunque, è lì. Nemmeno troppo raggiante per la vittoria conseguita dalla sua Roma all’epilogo di uno dei derby più importanti in campo e fuori degli ultimi anni. Un derby anomalo anche perché disputato di lunedì alle 18, contravvenendo ogni continuità con la tradizione liturgica del calcio almeno nel weekend, se non proprio alla domenica, e in ossequio a tutte le perversioni che il sistema economico-capitalistico dell’egemonia televisiva e le tecniche di controllo sociale hanno esercitato sul mondo del calcio da quando Valerio ha iniziato a scriverci sopra.
Un colpo di testa all’85° sotto la Sud in «trasferta» del centrale difensivo transalpino Mapou Yanga-Mbiwa decide la partita in favore dei giallorossi facendo seguito al vantaggio di Iturbe e al momentaneo pareggio di Djordjevic. Accoltellamenti e scontri prima e dopo il match, giocato per motivi di sicurezza di lunedì alle 18,00, determinano l’affermazione securitaria e imperativa del prefetto di Roma, che il giorno dopo tuona che da ora in poi tutti i derby capitolini si disputeranno alle 12. Qualcuno ricorda la sinossi de Il derby del bambino morto?
Ecco: nulla di nuovo dal Fronte Occidentale.
Lo immaginiamo, Valerio, ancora immerso fra gli scaffali della creatura di cui andava più orgoglioso. La Libreria Internazionale di via dei Volsci 41, nel ventre duro del quartiere di San Lorenzo a Roma. E immaginiamo che un raggio di sole penetri dalla vetrina illuminata dai riverberi dei murales di fronte alla strada e conferisca al profilo di Valerio un non so che di ieratico, paganamente parlando, assimilabile al tormento dei personaggi di Caravaggio ospitati nella chiesa tardorinascimentale di San Luigi dei Francesi, nel centro di Roma.
La luce irradia le mille rughe e più che non ricordavo di aver notato dieci anni fa, quando ci eravamo visti l’ultima volta a Polignano a mare, splendido paese incastonato sulla corona della riviera a sud di Bari nel quale aveva scelto di vivere con la moglie Anna e dove aveva aperto una nuova libreria, “La Capa Gira”.
I capelli radi, cortissimi. Le braccia tatuate. I tatuaggi, naturalmente, sono sempre gli stessi di allora. Ma è lo sguardo a essere diverso. Gli occhi. Quegli occhi in grado di vedere, capire e spiegare tutto con largo anticipo sugli altri. Quegli occhi capaci di viaggiare oltre l’ovvietà del mondo sensibile, oltre le banalizzazioni della sociologia accademica, dell’antropologia sociale autoreferenziale, dell’opportunismo ideologico. Oggi quegli stessi occhi, nonostante il bagliore postorgiastico del derby, appaiono spenti. Quasi rassegnati. Sicuramente stanchi.
Inizia a parlare lentamente, Valerio, scandendo bene le parole, una per una, quasi come se mi stesse dettando una sorta di testamento spirituale.
«Non so se quello di cui parliamo possa essere compreso dai più. Non so se quello che sosteniamo e di cui giustifichiamo l’esistenza sia qualche cosa di cui valga la pena veramente parlare. Non so. Non so più molte cose. Non so perché continuiamo ad ostinarci nel difenderci e nel crederci. Non so perché sono su questo treno a fuggire per colpa del mio passato e del mio presente. Non so. Il calcio giocato è una variabile marginale della faccenda. “A noi della partita non ce ne frega un cazzo!”, cantavamo.
«Così come del calcio ipertrofico, dagli ingaggi gonfiati a dismisura. Noi siamo fuori da quelle logiche. Anzi, avremmo dovuto rimanerne fuori. Ma è andata diversamente. Avremmo dovuto combattere con maggior decisione certe derive, invece ne siamo stati tutti quanti fiancheggiatori più o meno volontari. Il senso di onnipotenza di essere il dodicesimo giocatore ha esaltato anche gli aspetti più nocivi, spettacolarizzanti, mercantili dell’essere ultras. La vendita del materiale griffato che doveva servire ad autofinanziarci per renderci autonomi dalle società, ha contribuito a trasformare i gruppi ultras in aziende. La gestione dei biglietti, che le società ci somministravano per ammansirci e controllarci, si è trasformata in un enorme business. L’avvento di internet ha consentito a molti di divenire guerrieri virtuali, diffondere fandonie, celebrare scontri e cose mai avvenute ribaltandone i contenuti reali.
«Con alcune tifoserie ci si picchiava da principio solo perché erano fascisti o comunisti, oppure perché ci avevano menato l’anno precedente, oppure perché erano città ostili per campanilismo o semplicemente perché ci stavano sui coglioni per svariati motivi. Penso che quasi mai ci siamo dati per cause legate all’andamento della partita, a un arbitraggio sfavorevole, alla delusione per una sconfitta ingiusta. Forse lo fecero i nostri vecchi. Poi c’erano gli sbirri, su di loro potevamo sfogare tutte le nostre frustrazioni in un vicendevole e paritetico simulacro di terapia di gruppo. Con gli altri ultras era diverso. Sapevamo quello che stavamo facendo e ci piaceva farlo perché era giusto così. Anche se a molti, come me per esempio, piaceva muoversi abbastanza sciolti dal resto del branco, per essere meno identificabili, meno visibili, sottrarsi all’omologazione che anche appartenere al gruppo definiva in contorni precisi, fare più danni e giocare magari sul fattore sorpresa. Anche se poi crescendo ho capito che il gruppo, quello vero, formato da uomini e donne veri, amici, compagni, gente con cui lotti, vivi e magari scazzi tutti i giorni, è l’unico che ti para il culo quando hai bisogno e ti sostiene quando stai per cadere o ti esalta quando la vita prova a sorriderti sul serio.
«Oggi è cambiato tutto. Una volta c’erano ideali sportivi e politici. I giovani che si avvicinavano alle curve avevano tutto da perdere o nulla da perdere. Ma erano consapevoli di affrontare un’avventura nuova. Oggi la maggior parte viene allo stadio per moda. Per alcuni andare in curva è stato un modo per arricchirsi. Alcuni capi ultras hanno iniziato a viaggiare in aereo con la squadra anziché sbattersi nei treni o sui pullman con gli altri ragazzi. Alcuni pagano con le carte di credito. La commercializzazione del tifo rimane una delle fonti d’entrata primarie dei gruppi, questo l’ho già detto, ma una volta si facevano le tessere solo per gli attivisti, gli adesivi e le sciarpe le si vendevano ai ragazzi che frequentavano, e con i ricavi si pagavano le coreografie, le spese per gli avvocati, il fondo cassa per coprire i costi delle trasferte per chi fra noi non poteva permettersele. Oggi ci sono dieci tipi di sciarpa, polo, portachiavi, orologi, teli da mare, cinture, tutto ciò che può essere venduto con il logo del gruppo viene prodotto in maniera seriale e diffuso come uno status symbol e indossato anche da chi del gruppo, dei sacrifici, dello scontro per difendere e onorare quello striscione, non ne sa nulla. Siamo tutti ultras da vetrina. Molta forma e poca sostanza. E quando la sostanza c’è è robaccia da fuori di testa che innalza la tensione, foraggia la repressione e distrugge la genuinità del movimento».
E su queste ultime parole, immaginate Valerio alzarsi dallo sgabello dietro il banco su cui lo trovavi sempre appollaiato per dirigersi verso la porta, salutando con un pugno chiuso prima di scomparire ingoiato da un raggio di sole rosso oro.
Di Valerio Marchi si potrebbe parlare per settimane. Si dovrebbe anzi scrivere un romanzo tutto dedicato a lui. Valerio Marchi è uno storico, sarebbe stato un grande professore ma la sua università è sempre stata la strada. Aveva abitato per anni a via dei Volsci, a San Lorenzo, Roma. Aveva militato nel movimento e di questo andava fiero.
È uno skinhead, Valerio, di quelli con le braccia tatuate, la Fred Perry e il cervello ben funzionante dentro la calotta cranica rasata. Aveva militato nella sua curva, aveva fatto gli scontri solo per amore della maglia, figlia di una violenza inevitabile. Ma la violenza, sostiene Valerio: «Ha una sua ragione sociologica, quella sì politica».
Si era auto-esiliato dalla sua curva, senza smettere di amarla e seguirla. Tanto è vero che si mise a scriverne. Non solo della sua curva. Ma di tutte le curve. Da serio studioso. Ribaltando con perspicacia e un senso critico fuori dall’ordinario tutti i luoghi comuni che vengono spacciati da anni sul conto degli ultras, ma anche delle cosiddette controculture, o sottoculture come amano definirle i sociologi e gli accademici di regime. Aveva scardinato la prassi della dietrologia, aveva descritto tutto per filo e per segno, anticipando tendenze e ripristinando la verità, che non sarà rivoluzionaria, ma sicuramente rompe i coglioni.
Poi aveva aperto la libreria, sul marciapiede opposto a quello di Radio Onda Rossa e delle vecchie sedi dell’autonomia romana. La sua libreria è uno spazio aperto, frequentato dagli intellettuali, dagli antagonisti, dagli squatters, dagli skin, dagli ultras e da gente ancora meno “presentabile”.
«Ma quella è la mia gente», mi dice sempre.
Come quel giorno che mise le bandiere della sua Roma nella vetrina della libreria: «Perché oggi la nuova ribellione sociale passa per la tifoseria calcistica. La politica? Dalla piazza allo stadio!».
Valerio un libro non sa venderlo senza raccontarti una storia, senza fare mille domande per capire cosa cerchi veramente, senza darti un consiglio. Che tu lo voglia o no.
«Ma no, pija quell’altro che è mejo…».
Ho imparato a scrivere degli ultras grazie a Valerio Marchi. Ho capito che si può essere dalla parte giusta anche se tutti dicono che sei dalla parte sbagliata. Scrisse un giorno Brecht: «Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati». Ecco chi è Valerio. Un cane sciolto con una libreria di quattro metri per quattro, ricca di circa cinquemila titoli, disposto a ospitare gente come me che gli rompe i coglioni tutto il santo giorno, seppellendolo sotto il diluvio di domande alle quali, con un sottile pizzico di perfidia, so sempre che lui risponderà con gentilezza e rassegnata precisione.
Ciao Valerio. |