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Raciti tre anni dopo. Stadi vuoti e nel silenzio

 

Tre anni esatti dopo la morte di Filippo Raciti allo stadio di Catania, arriva la sentenza della corte costituzionale (rectius: della Corte di Cassazione) che definisce come reato ogni coro da stadio rivolto contro le forze dell'ordine (vedi l'articolo sulla sentenza)
Le motivazioni della sentenza, per come è dato leggere dalle agenzie di stampa, vanno a configurare questo genere di manifestazione d'opinione come reato. Usando le categorie morali di "prestigio" e "onorabilità" delle forze dell'ordine come terreno che legittima una manifestazione di pubblica opinione rappresentata dai cori. Il rischio che questa sentenza faccia scuola, allargandosi alle manifestazioni e ai cortei, è evidente. Lo stadio, come in altre occasioni, apre quindi una breccia nella legislazione e nelle pratiche di controllo permettendo loro di allargarsi ad altri terreni della società.
Detto questo non resta che tirare un bilancio su cosa siano gli stadi italiani tre anni dopo la morte di Raciti, che rappresenta l'11 settembre del calcio italiano.
Gli stadi sono rimasti prima di tutto degli impianti scomodi, dove la visione della partita è tutt'altro che assicurata e dove lo svuotamento degli spalti è un processo per adesso inarrestabile. In compenso gli impianti sono stati recintati come zone speciali, accessibili tramite tornelli e guardati a vista da polizia e steward. Una sorta di zona verde alla Baghdad con la differenza che, una volta entrati, all'interno non c'è un impianto affollato ma una distesa di posti vuoti dove di solito gruppi di spettatori isolati possono vedersi da lontano e salutarsi a vicenda. Insomma, il paradosso di una zona speciale che non contiene nulla salvo uno spettacolo che si rivolge non tanto ai pochi presenti ma soprattutto agli spettatori collegati tramite televisione (o tramite Internet, versione attuale della riappropriazione gratuita del calcio).
Le leggi speciali volute da Amato e dal centrosinistra tutto, e riprese da Maroni, hanno così ridotto al minimo la socializzazione e la cultura da stadio. Anzi l'hanno trattata come questione di ordine pubblico separandola produttivamente, nel senso del prodotto da vendere altrove rispetto allo stadio, dal business più importante ovvero spettacolo che avviene sul campo.
La proibizione di striscioni, fumogeni, tamburi, microfoni, trasferte si è quindi diretta principalmente contro la cultura del tifo. Per adesso con efficacia fino a quando una nuova generazione di persone non tornerà allo stadio, che rimane un luogo di aggregazione, esprimendo la propria specificità.
Al vuoto, come ci dimostra la sentenza della cassazione, si è quindi aggiunto il silenzio. L'assimilazione a reato dell'espressività nei luoghi pubblici mostra tutta la povertà dell'attuale cultura istituzionale (che sia di centrodestra o di centronistra). E mostra anche che delle culture pubbliche, elaborate dal basso, le istituzioni concepiscono solo la riduzione a silenzio. Anche a costo di vendere sui circuiti internazionali immagini di partite che hanno minor valore per assenza del pubblico.
Quando si dice: il deserto prima ancora del mercato. Ecco il senso della "cultura" della sicurezza.