NON C'E' FEDE SENZA LOTTA

LA GENESI DELLA REPRESSIONE

NOI DA NOVE ANNI CONOSCIAMO LA VERITA'!

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SPEZIALELIBERO

DAVIDE LIBERO











PASSATO E PRESENTE, STORIA E PENSIERI: UN’INTERVISTA SUL MONDO ULTRAS

 

FONTE:Sport People

 

Il ruolo privilegiato di longevi osservatori del mondo ultras, ci vale ciclicamente interviste a cui non sempre abbiamo il piacere di rispondere, specie laddove l’approccio è mosso solo dal clamore mediatico che la parola “ultras” porta con sé, senza nemmeno troppo preoccuparsi di capire o sapere quello di cui si sta parlando. Il ragionamento vale spesso in maniera inversamente proporzionale ed è dal basso che, il più delle volte, arrivano i confronti più stuzzicanti o le riflessioni di più ampio respiro. Come in questo caso in cui Ivan Pezzuto, già nostro collaboratore occasionale, ci aveva proposto e sottoposto un’intervista per un piccolo giornale di un liceo della Brianza che qui di seguito vi proponiamo in maniera integrale. Affinché questo contributo non resti confinato fra le pagine di quel cartaceo, sia accessibile anche ai nostri lettori e magari, perché no, possa contribuire ad ampliare il dibattito su argomenti sempre attuali e accorati per chi questo mondo lo vive dall’interno. 
Buona lettura.

 

Fine anni Sessanta: mentre nelle piazze di tutto lo Stivale infuriavano le proteste di una generazione per nulla incline ad uniformarsi ai costumi dei padri e alle ingiustizie sociali che avevano segnato il dopoguerra, sugli spalti degli stadi iniziarono ad apparire i primi striscioni con la dicitura “Ultras”. Chi c’era dietro quei teli di stoffa destinati a rivoluzionare il modo di concepire l’evento sportivo? Dove si possono rintracciare le radici di questo movimento e che ruolo ebbe, nel suo sviluppo, il contesto sociale in cui nacque? Come si è evoluto negli anni a venire?

La storiografia è molto lacunosa in materia, questo perché, da sempre e in ogni versante, l’approccio al mondo ultras è spesso stato pervaso da un certo moralismo, persino laddove vi si chiedeva di anteporre rigore storico e scientifico. Difficile dire quando nacque il primo vero gruppo ultras senza aprire un vasto fronte polemico. Per sintesi possiamo dire che i primi gruppi ultras nacquero nelle metropoli italiane, segnatamente a Milano e poi, a seguire, nel resto del cosiddetto Triangolo industriale (Genova e Torino) per poi via via diffondersi a tutte le altre città e successivamente anche in provincia. Già da anni esistevano club di tifosi che riunivano sia giovani che adulti al fine di seguire insieme le gare della propria squadra, organizzando viaggi collettivi in occasione delle trasferte più importanti e imbastendo le prime forme estemporanee di coreografie e di tifo. Gli ultras hanno rappresentato, parallelamente a quanto avveniva in quei tardi anni ’60 nel resto della società, il tentativo di affermazione e di indipendenza dei tifosi più giovani dall’ala protettiva di quegli stessi adulti con i quali, magari, avevano varcato per la prima volta le porte dello stadio, ma che di certo non vedevano troppo di buon occhio il tifo più chiassoso e spesso turbolento che i giovani proponevano. La genesi del movimento ultras si può registrare proprio all’interno di quei club di tifosi, dove talvolta venivano formate sezioni giovanili come fu nel caso del Commandos Tigre del Milan, in origine Commandos Clan, che mosse i primi passi nel 1967 in seno al club “I tuoi fedelissimi”. Da lì, pian piano, per evidente divergenza, le sezioni giovanili andarono staccandosi dai club e la nascita dei successivi gruppi ultras avvenne autonomamente, totalmente fuori controllo, nel bene e nel male. 
Commandos Tigre, Brigate Rossonere, Collettivo Autonomo Viola, ecc.già la nomenclatura evidenzia il forte legame, quantomeno ideale, fra i primi gruppi ultras e le varie realtà della politica extraparlamentare. Anche l’attitudine era fortemente mutuata da quella di piazza: i cortei verso lo stadio avversario con lo striscione in testa, l’occupazione militare degli spazi, la contrapposizione talvolta violenta con i nemici sportivi, lo sfoggio di pari simbologia politica, tutte caratteristiche che poi verranno rielaborate all’interno di questo laboratorio creativo, spesso in maniera apertamente e gratuitamente provocatoria contro chi, in qualsiasi maniera, intendeva rappresentare esercizio di autorità nei loro confronti.
Questo limitatamente all’evoluzione dei primi anni, perché per spiegare tutti i cambiamenti intercorsi fino ai giorni nostri dovremmo prenderci molto più spazio. Per chiosare, posso solo dire che agli sviluppi meno nobili del movimento ultras ha contribuito anche la spinta repressiva dello Stato: la stessa militarizzazione degli stadi, per esempio, ha introdotto un terzo blocco antagonista fra tifosi di casa e tifosi ospiti che, di fatto, ha innalzato la statistica degli scontri violenti, molte volte provocandoli direttamente, per la scarsa perizia nel distinguere la violenza reale da quella che i sociologi chiamano “violenza rituale”, una violenza cioè solo simbolica, fatta di gesti, minacce e mimica sterile che poi si auto-estingue in breve, se non incentivata.

Ultras e Hooligans: in che misura queste sottoculture, spesso accomunate dai media, differiscono fra loro?

Nei primi anni della loro esistenza, gli ultras hanno guardato con molto interesse all’Inghilterra e al fenomeno hooligans nel loro tentativo di tracciare una distanza quanto più netta possibile con i “normali” e più pacifici tifosi. La sciarpata per esempio, una coreografia con tutte le sciarpe aperte a mo’ di grosso tappeto colorato, è una tradizione che prende spunto dalla Kop di Liverpool, così come il ricorso più sistematico e programmatico alla violenza: al contrario della stupida retorica mediatica sui bei tempi andati, la violenza nel calcio esisteva già prima dell’avvento degli ultras, non a caso la prima morte allo stadio risale al 1920 a Viareggio, lo scontro scudetto fra Genoa e Bologna del 1925 finì a pistolettate, ma col tempo, quella che era una violenza fortemente orientata al campo di gioco, motivata cioè dagli eventi della partita o da decisioni arbitrali contestate, divenne una violenza territoriale, campanilistica, diretta verso i tifosi avversari con i quali si andava a innescare una lotta per la supremazia che si giocava su tutti campi, canoro, coreografico e appunto fisico. I due modelli di tifo però, già contraddistinti da una certa differenza di fondo, con l’incedere del tempo hanno assunto ognuno caratteristiche proprie e non è un caso se oggi come oggi, anche in tantissimi paesi del nord Europa dove ha sempre prevalso il “modello Inglese”, le tifoserie organizzate si stiano sempre più convertendo al “modello italiano”. Il motivo di tale successo è proprio in ragione delle sostanziali differenze che rendono gli ultras così imitati non solo in nord Europa, ma anche in Europa centrale, orientale, nord Africa, Nord America e Asia: gli ultras non sono solo violenza, contrariamente al cliché mediatico, sono anzi forse l’ultimo movimento di massa a proporre aggregazione sociale, condivisione di idee e opere, solidarietà attiva e tutta una serie di altri valori, in aperta antitesi all’individualismo tanto caro a chi vorrebbe ridurre l’essere umano a mero consumatore, senza spirito critico e istinto ribellistico. Gli ultras, per esempio, hanno animato le proteste dell’allora Primavera Araba, così come le manifestazioni a Istanbul contro Erdogan e anche da noi abbiamo avuto alcuni esempi in tal direzione: diciamo che la scusa della lotta alla violenza in senso lato, è spesso il paravento per una pacificazione sociale coatta, che stride fortemente con il momento attuale in cui la situazione politica ed economica, a tutto indurrebbe tranne che alla pace del corpo sociale. 
Per tornare alla domanda, gli hooligans sono anomici, anonimi, non hanno colori distintivi, hanno una partecipazione molto umorale alla partita, non cantano certo per tutti i novanta minuti come gli ultras, ma solo in determinati momenti topici e poi cedono al mutismo. Finita la partita finisce anche il loro istinto aggregante, a differenza degli ultras che invece hanno una identità fortissima e un alto senso sociale che estende la loro attività ben oltre la partita, riunendosi in associazioni, circoli, bar, organizzando presentazioni di libri, feste collettive, ecc. Estremizzando il concetto, che è un po’ tranciante e chiedo scusa, diciamo che per gli hooligans la violenza è primaria, per gli ultras è invece primario fare aggregazione. Non a caso, gli hooligans sono stati fortemente marginalizzati dagli stadi dal fortissimo caro-biglietti applicato in Inghilterra, questo perché la loro composizione è quasi esclusivamente radicalizzata nella “working class”, mentre il movimento ultras è per sua natura più interclassista e intergenerazionale, e per questo resiste ancora oggi alle stesse aggressioni del mercato e della repressione di Stato.

Estremisti, collusi con gli ambienti criminali, disinteressati alla propria squadra, ricattatori e, in definitiva, “nota stonata dello sport più bello del mondo”: cosa c’è di vero? cosa ha contribuito ad affermare questo stereotipo nei riguardi degli ultras?

C’è di vero che, al pari di quello che succede nel resto della società di cui lo stadio è specchio, laddove ci sono forti somme di denaro in ballo, inevitabilmente finiscono per esservi attratti anche gli interessi della criminalità organizzata. E come per qualsiasi tentativo di infiltrazione mafioso in un tessuto sano, invariabilmente ci sarà chi si opporrà come può, chi riterrà stupido mettersi a fare l’eroe e chi perderà la testa di fronte alla promessa di soldi e potere. Ciò però, è bene ricordarlo, succede in quelle poche curve dal grandissimo bacino di utenza di cui tanto s’è parlato, mentre la stragrande maggioranza cerca di vivere la propria vita di ultras all’insegna di quei principi primari che ne avevano ispirato la nascita. In Curva gira certamente la droga, come ne gira anche fuori da essa, in Curva ci sono sicuramente brutti ceffi così come fuori da essa, ci sono persone che approfittano del proprio ruolo e del proprio ascendente per trarne in un modo o nell’altro vantaggio, come succede esattamente in tantissimi altri luoghi del vivere quotidiano, chiese comprese. Ci sono altresì tantissimi esempi virtuosi in quello che è un fenomeno complesso e nella sua complessità andrebbe analizzato, non banalizzato con presuntuose inchieste giornalistiche un tanto al chilo che ultimamente vanno tanto di moda. Guardare e pretendere gli stadi come spazi verginali in cui i bambini possano saltellare allegramente con le corone di margheritine in testa, è nella migliore delle ipotesi una sorta di tentativo di catarsi o di deresponsabilizzazione ipocrita di istituzioni come la politica, la famiglia, la scuola, ecc. alle prese con un grande vuoto di autorità, che scaricano altrove responsabilità anziché fare autocritica. La lotta alle infiltrazioni mafiose, alla corruzione, agli abusi di potere persino più miseri come il bagarinaggio, spetterebbero al potere esecutivo e giudiziario, e se riuscissero a sconfiggerli, gli ultras veri non potrebbero far altro che ringraziare, ma non possono essere gli ultras i poliziotti degli ultras stessi. Certo, a dirla tutta, questa grandissima battaglia civica andrebbe estesa ed iniziata fuori dallo stadio che poi, per cascata, ricadrebbe su tutto il resto del paese, stadi compresi, sennò aizzarla (senza nemmeno imbastirla seriamente…) solo dentro quelle quattro mura, sarebbe un po’ come dare una mano di bianco ai sepolcri scrostati.

“No al calcio moderno”: forse lo slogan più inflazionato all’interno delle curve. In cosa consiste, al di là di ogni retorica, l’oggetto contro cui, da almeno vent’anni a questa parte, gli ultras si scagliano con tanta veemenza? Quali sono altresì le ragioni di un’opposizione così intransigente?

Fuori da questa bolsa retorica, il calcio è in realtà moderno fin dalla sua genesi, o quanto meno da quando – abbastanza presto – fu varato il professionismo: la Juve del 1930-31 che instaurò il primo dominio su scala nazionale, vincendo 5 scudetti consecutivi e formando l’ossatura della Nazionale che poi vinse i Mondiali del ’34 e del ’38, era già sotto la guida degli Agnelli ed era già una piccola multinazionale del pallone; il Grande Torino che impregna di romanticismo i nostri ricordi, non da meno aveva costruito i suoi record su un approccio fortemente manageriale del calciomercato, alla ricerca dei giocatori migliori su cui investiva cifre davvero importanti per l’epoca. Quello che gli ultras contestano e che chiamano forse impropriamente “calcio moderno”, è in realtà quello ridisegnato nella sua ritualità dall’avvento delle pay-tv nei primi del ’90: abitudini quasi secolari sono state stravolte, tutte le partite dalla A alle categorie inferiori giocate in blocco alla domenica e allo stesso orario hanno ceduto il passo ad anticipi, posticipi, turni infrasettimanali, gare ad ora di pranzo, alle 18:00 o agli orari più disparati. Oltre alle difficolta logistiche dei tifosi, il rito è stato trasformato in evento non solo dalla tendenza tutta televisiva all’entertainment che ha cambiato i connotati dello sport in spettacolo, ma anche da un caro-biglietti ingiustificato, se rapportato alla qualità del “prodotto” offerto e dei suoi luoghi di fruizione spesso ai limiti del cadente. La pioggia di soldi delle tv a pagamento infine, distribuita in maniera non proprio equa, ha contribuito ad allargare ulteriormente la forbice fra club grandi e piccoli, per cui, mancando da tempo le vittorie a sorpresa delle varie Sampdoria, Verona, Napoli, Cagliari, Roma e Lazio della situazione, viene del tutto meno la percezione favolistica che Davide possa battere almeno sporadicamente Golia, viene meno il concetto stesso di sport nella sua accezione più nobile, ossia di contesa fra due contendenti ad armi pari, non già fra uno armato di fioretto e l’altro di bomba all’idrogeno.

Evento sportivo e violenza: è possibile tracciare una storia di questo binomio? Perché, in anni recenti, soprattutto attorno al calcio si sono registrati i casi di violenza più eclatanti? Che ruolo hanno avuto in questo contesto gli ultras? È possibile spiegare l’effettiva valenza del confronto fisico per gli ultras, e il modo in cui è da questi concepito?

Come già detto, la morte di Augusto Morganti a Viareggio nel 1920, seguita poi da quella di Giordano Guarisco a Milano nel 1958 e di Giuseppe Plaitano a Salerno nel 1963, senza contare la lunga sequela di feriti più o meno gravi, dimostrano come la violenza non abbia un nesso di causa-effetto con gli ultras, che arriveranno sulla scena molto dopo, ma sia un – mi si perdoni la licenza che può sembrar cinica – mero effetto statistico collaterale alla impressionante massa di spettatori convenuti alle partite di calcio e posti in conflittualità dalla natura stessa di questo sport. Lo aveva evidenziato nelle ricerche del suo libro “Descrizioni di una battaglia” anche l’insigne sociologo Alessandro Dal Lago: in rapporto al numero di attori coinvolti e alla particolare eccitabilità del momento, il calcio genera molta meno violenza (ma non per questo meno stigmatizzabile, sia chiaro) delle feste in discoteca o delle controversie per questioni di viabilità automobilistica. Però il calcio è molto più “attenzionato” e la sua violenza genera interesse mediatico e politico, spesso morboso, che in una spirale perversa attende l’evento che ne confermi le sue ragioni e ne alimenti il moralismo. Anche se poi quel moralismo non ha mai spostato di una virgola la questione e ancora oggi, anni e anni e leggi e leggi dopo, la percezione di pericolosità sociale degli ultras sembra immutata. Andrebbe fatta un’ampia considerazione sulla percezione e sulla realtà, ma venendo alle responsabilità dirette, è innegabile che anche gli ultras ci abbiano messo del loro in tutto ciò: determinante è l’innata propensione al confronto fisico che è normalmente accettata fra gli ultras tanto quanto il confronto canoro o quello coreografico; se mi passate ancora una volta una metafora ardita, come nelle pratiche BDSM ogni moralismo terzo lascia il tempo che trova di fronte al consenso fra le parti, ma il problema grosso è che al netto di un già blando codice di comportamento non scritto, che prima di tutto prevede che lo scontro debba restringersi e svolgersi solo fra ultras, non di rado ci sono stati soggetti che nella logica della prevaricazione cieca, hanno dato luogo ad agguati all’arma bianca, aggressioni in netta superiorità numerica, violenza nei confronti di estranei al movimento ed ogni sorta di infamia, cosa che ha ben presto innescato una spirale di odio e vendette che, all’interno del mondo ultras e per mano degli stessi ultras, ha legittimato l’appesantimento delle pene e l’onta di biasimo nazional-popolare.

Spesso, anziché arginare la violenza negli stadi, il modo in cui lo Stato si è rapportato ad essa hanno contribuito, nel corso degli anni, ad esasperarla: che direzione hanno preso, dagli anni settanta sino ad oggi, le politiche di contenimento della violenza attuate dallo Stato? In definitiva, che effetti ha avuto quella che senza mezzi termini viene chiamata, nelle curve, repressione?

In realtà, nei primissimi anni della loro esistenza, in un periodo in cui il paese viveva nella paranoia della lotta armata, nei confronti degli ultras c’era persino un certo permissivismo. Le curve venivano viste come un recinto sicuro e facilmente controllabile nel quale convogliare e depotenziare le tensioni giovanili, ma con il tramonto della stagione politica, orfana di un “folk devil” su cui dirottare le angosce popolari, e anche in ragione di un’effettiva escalation della violenza, la politica cominciò a porsi il problema ultras. Lo fece soprattutto all’indomani dell’assegnazione dei mondiali all’Italia, in un periodo in cui, dalla morte di Vincenzo Paparelli in poi, gli ultras salirono agli “orrori” della cronaca per una serie di eventi delittuosi. A quegli anni risalgono infatti le morti di Marco Fonghessi, Nazzareno Filippini, Antonio De Falchi oltre ad altre non direttamente riconducibili a scontri ultras ma a loro ascritti per contiguità, anche laddove la morte fu causata dalle cariche della polizia, si veda il caso di Stefano Furlan a Trieste. Proprio alla vigilia del mondiale fu varata la legge 401 del 1989, la stessa che ancora oggi, con tutte le modifiche del caso, regolamenta l’ordine pubblico e le pene in occasione di manifestazioni sportive. E di comma in comma, di governo in governo, l’approccio è sempre stato lo stesso, ossia repressivo, colpendo nel mucchio, spesso in forte conflitto costituzionale. Come nel caso del daspo di gruppo, per esempio, con il quale le colpe non sono più personali ma di un intero gruppo sociale. Lo stesso daspo, il divieto d’accesso alle manifestazioni sportive, pur restando nel novero delle sanzioni amministrative, limita comunque di fatto e preventivamente le libertà individuali dei “sospetti” autori di violenze, ma senza che vi sia mai celebrato un processo per stabilirlo. Quando il collegato dibattimento penale s’è discusso e magari concluso con un’assoluzione, il “daspato” ha il più delle volte già scontato la sua limitazione di libertà. Parafrasando all’inverso lo scrittore scozzese Irvine Welsh, credo bisognerebbe condannare di meno e comprendere di più: il nodo di fondo è questo, il legislatore non ha mai realmente compreso la materia sulla quale ha legiferato per decenni invano, di giro di vite in giro di vite che non hanno portato a nulla se non alla logica della rappresaglia incrociata. Le leggi per la gente della curva le ha scritte chi in curva non ci ha mai messo piede, e per quanto nel frattempo il movimento ultras abbia formato organismi rappresentativi, o personalità autorevoli e autorizzate a parlare in loro vece, come alcuni avvocati e parlamentari provenienti proprio dal mondo delle curve, il mondo istituzionale ha continuato spocchiosamente dritto per la propria strada, senza voler sentire ragioni, ritrovandosi così, a distanza di anni, con lo stesso irrisolto problema fra le mani.

Ultras e militanza politica, due aree spesso contigue: in che modo la politica ha influenzato il modo di vivere le gradinate? Qual è il confine fra provocazione simbolica ed estremismo vero e proprio? È possibile individuare una tendenza generale, oggi come oggi, nel modo in cui le curve si rapportano alla politica?

Innanzitutto va detto che la politica in curva è un fatto molto istintivo e provocatorio: in una reazione a suo modo “punk”, al di là di un certo retroterra ideologico, lo sfoggio della svastica a Verona o di Stalin a Livorno era volto a suscitare l’indignazione borghese o quella degli avversari. Oggi come oggi invece, in osservanza di quel famoso codice non scritto chiamato in gergo “mentalità ultras”, si cerca di tenere la politica quanto più distante possibile dalle curve. Questo in linea di massima, anche se poi ci sono alcune curve che, in linea con la loro tradizione, ostentano l’una o l’altra ideologia. Non più però (se non saltuariamente) attraverso simboli o striscioni espliciti, visto che anche qui la normativa è diventata particolarmente afflittiva. Magari si fa ricorso a dei cori o a una meta-simbologia che richiama una determinata area. Mi sento però di rassicurare le stesse ansiogene anime di sempre sul pericolo di una scalata della politica estrema al mondo delle curve: negli stadi, pur se in forte deflessione, continuano a girare numeri importanti e se gli ultras fossero in toto così invertebrati da flettere in balia di questo o quell’imbonitore, interno o esterno alle curve stesse, quegli stessi partiti non continuerebbero ad aggirarsi sullo zero virgola nulla. Quelli che viaggiano a gonfie vele e su ampie percentuali invece, dovrebbero indurre la controparte a delle risposte politiche, non come sempre a perdersi nella ricerca di un capro espiatorio. Oltretutto, lo spauracchio di cui sopra, così come nel resto dell’elettorato è altrettanto divisivo per gli ultras, visto che è stato firmatario dell’ennesimo inasprimento di pene con il suo ultimo decreto, che ha allungato il daspo fino a dieci anni. 
Esistono alcune realtà dove la longa manus di certi movimenti politici influisce sulle scelte o sulle attività degli ultras, sono quelle realtà territoriali dove i sindaci hanno attinto manovalanza fra i tifosi, talvolta assumendoli al ruolo di picchiatori, il tutto mandando al massacro (o a massacrare…) adolescenti, mentre i reclutatori guadagnavano posti nelle partecipate municipali. Un quadro squallido da qualunque parte lo si veda ma, non per benaltrismo, il mio invito è di guardarlo anche dalla prospettiva delle varie giunte che certe situazioni le hanno incoraggiate e non solo del mondo ultras, che poi in verità l’ha subito.

Ultras e mondo esterno: un rapporto complesso, dettato dalla diffidenza reciproca e dalla mancanza di dialogo. Come si è evoluto negli anni il modo di fare i conti con la realtà circostante? In questo contesto, che ruolo hanno i social network? Quale, invece, libri e riviste di controinformazione come la vostra?

Vicendevolmente è tutta questione di quanto reale sia la voglia di confrontarsi. Il mondo ultras di per sé è refrattario, tende a somatizzare il luogo comune che il mondo esterno ha di esso e a crogiolarsi nel ruolo della vittima, che diventa una facile scappatoia in casi di colpe e/o concorsi di colpe, ma diventa altresì spesso una condanna auto-inflitta da cui poi è impossibile smarcarsi, anche quando si ha palesemente ragione. Oltre alla diffidenza, tutto ruota attorno al malinteso senso di omertà mutuata dal codice della strada da cui anche gli ultras provengono, e se questa da un lato è una scelta comprensibile per proteggere i propri “compagni di banco”, da un altro è puro masochismo quando non c’è alcuna delazione in ballo ma si tratta di difendere le proprie ragioni. 
I social network hanno sdoganato la comunicazione all’interno del mondo del tifo, talvolta persino troppo, riducendo le distanze con il resto del mondo che ha imparato almeno un po’ a recepirne le istanze più genuine. Resta il problema (che è generalizzato) della scarsa consapevolezza e padronanza dei social e della comunicazione, il che porta ad una sovraesposizione da cui spesso vengono partorite atrocità  linguistiche, logiche e del buon senso. Ci sono alcune realtà capaci di usare con saggezza i mezzi di comunicazione a propria disposizione, sensibilizzando e anche contro-informando in casi di abusi, ma purtroppo restano una minoranza. 
Anche per i libri e le riviste di settore vale più o meno lo stesso discorso: troppa compiaciuta autoreferenza, troppa approssimazione e anche chi prova ad alzare l’asticella, a porre il discorso su un livello differente, deve poi scontrarsi con questo stato di cose e non ultimo con le logiche del mercato, che rendono quasi impossibile l’esistenza di realtà informative qualitative ma di nicchia. Noi sopravviviamo come siamo nati, come associazione culturale senza scopo di lucro, ma anche questo è un vivere alla giornata che mortifica le cose buone fin qui fatte, le potenzialità e le risorse umane espresse: esistere come rivista ci pone tutta una serie di adempimenti burocratici, collettivi e personali, sempre più esosi per i quali è difficile dire fin dove potrà proseguire questo percorso. In questo scenario proliferano pagine social estemporanee che nascono e muoiono senza soluzione di continuità, che sembrano vivere solo per i “like”, generati rubacchiando foto e video in giro per la rete (compresi noi…) senza produrre il minimo contributo proprio. Delineato questo scenario è facile immaginare quali tinte fosche possa avere l’informazione, detto già che quella generalista pecca di superficialità e sensazionalismo quando si parla di tifosi.
Va fatto un discorso a parte per la produzione accademica che, pur relativamente giovane, vede spesso partorire lavori di grande qualità e onestà, ma anche nell’osservazione partecipante di carattere etno-antropologico vi sono limiti e scarti con la materia narrata che rendono impossibile riuscire a raccontarla nella sua incredibile complessità.

Da atti di vandalismo gratuito all’incapacità di oltrepassare certe divisioni ideologiche, passando per omicidi e attività sospette: è possibile analizzare le controversie più evidenti che hanno segnato la storia degli ultras, contestualizzandole, dandone una ragione e analizzandone le conseguenze?

È possibile certo, ma è difficile come voler trovare una spiegazione razionale a qualsiasi devianza dalla norma che implicitamente ogni imposizione della norma porta in sé. Anthony Burgess in “Arancia Meccanica”, romanzo in cui si tratteggiava l’idea di una società da normalizzare a tutti i costi, sosteneva che alla normalità coatta, ad un concetto di bene deciso dall’alto, imposto come unica scelta possibile e non come consapevole approdo morale, è sempre preferibile una società perfettibile di esseri umani che hanno il coraggio di sbagliare, ma seguendo il proprio libero arbitrio e il proprio percorso di crescita morale.
Tornando agli ultras, di sbagli ne hanno commessi davvero tanti, anche se poi i confini fra responsabilità individuali e responsabilità collettive del movimento ultras tutto, sono talvolta sovrapposti in maniera impropria. Non di rado si finisce per parlare di concorso morale ed è pericoloso quando si fanno processi alle idee e alle intenzioni, perché rischia di restare insoluto il reato, si rischia di concedere delle attenuanti “culturali” e “ambientali” ai diretti colpevoli, in una perversa logica del branco inversa, in cui colpendo nel mucchio, si finisce per alimentare un sentimento di ingiustizia che paradossalmente legittima la violenza o comunque perpetua le devianze anziché favorire una pacifica normalizzazione.
Le conseguenze sono tante ed evidenti, a partire dal gigantesco mostro normativo creato in materia stadio e che di certo invoglia più restare a casa a guardarselo in tv il calcio, che non a vederlo dal vivo, considerando anche che negli ultimi tempi si son visti daspo anche per essere saliti su una balaustra o aver invaso un posto diverso dal proprio durante l’esultanza per un goal. Di certo gli ultras, intesi in senso collettivo, tutte le loro colpe le hanno sempre pagate fino all’ultimo. Hanno pagato anche colpe altrui in processi penali non sempre limpidi, come nel famoso caso Raciti che per le perizie del RIS, per le inchieste de L’Espresso, per libri di analisi giudiziaria, dove non tutti i ragionevoli dubbi sono stati dipanati. Altrettanto non si può dire dei poliziotti che hanno invalidato un tifoso della Sambenedettese a Vicenza, per restare all’attualità, o più estensivamente di chi ha guidato il calcio fra scandali e corruzione senza mai pagare pegno alcuno. Anche qui, questa triste doppia morale dovrebbe indurre a fare qualche riflessione.

Sfottò e razzismo: in un periodo storico ossessionato dal politically correct, dove sta la verità fra chi grida allo scandalo per un coro e chi fa spallucce di fronte a segnali allarmanti?

È molto allarmante il razzismo sdoganato nelle sedi istituzionali, dove un tempo almeno ci si atteneva a quel minimo di decoro e di senso dello Stato. Certo non è nemmeno piacevole ritrovarselo allo stadio, ma i due vasi sono comunicanti e il problema andrebbe affrontato nel suo complesso. In senso culturale. Non con le ghettizzazioni e nemmeno con le strumentalizzazioni isteriche. Una su tutte, l’assurdità del “razzismo territoriale”, veramente un capolavoro di idiozia perbenista senza pari. Da quando il calcio è calcio, ogni tifoso tiene al proprio campanile e denigra quello dell’avversario, spesso con trovate goliardiche che hanno fatto la storia del costume italiano. Ultimamente invece cantare “Squadra X merda” sembra essere diventato un attentato alle persone o all’unità nazionale, decontestualizzando gli eventi dalla loro cornice ludica e incentivando una vera e propria caccia alle streghe. In questo delirio, è capitato persino che un “rossoneri carabinieri” diventasse “rossoneri squadra di negri” per le orecchie malate dei media, sempre a caccia di agnelli da sacrificare sul rogo e con qualche immancabile innocente immolato sull’altare del daspo. Nell’agenda dell’indignazione dettata da tali prezzolati soggetti, non si capisce per quale assurdo teorema, se dei tifosi di una delle due milanesi cantassero “Vesuvio lavali col fuoco” è immediatamente razzismo, mentre se i napoletani cantassero “Un solo grido un solo allarme Milano in fiamme” è folklore. A sciogliere ogni dubbio ci hanno pensato gli stessi ultras napoletani che, in barba al piagnisteo del tifoso e del giornalista napoletano medio, hanno esposto lo striscione “Napoli colera”, chiedendo al contempo alle autorità di punirli, questo al fine di cortocircuitare la delirante ipocrisia di un sistema calcio che punisce sempre terzi per assolvere immancabilmente se stesso da ogni responsabilità. Detto da meridionale di nascita, sarebbe bello se ci fossero più cori contro i meridionali e meno pacche consolatorie sulle spalle da parte delle istituzioni, magari perché troppo occupate a dare al Sud ciò di cui ha davvero bisogno, ossia investimenti, politiche occupazionali, valorizzazione delle risorse umane e libertà dal giogo della criminalità organizzata.

Ultras: sottocultura o controcultura? È azzardato riconoscere una carica apertamente antagonista nei “ribelli degli stadi”?

È un dualismo sul quale mi arrovello da anni e a cui solitamente rispondo a seconda dell’umore del momento. Tendenzialmente sono un pessimista, il che mi porta a credere che quella ultras sia più sottocultura che controcultura. Questo perché pur nascendo in antitesi ai valori della società di riferimento, alla fine il movimento è stato metabolizzato dalla cultura dominante che, facendo persino sfoggio di finta democrazia, ne ostenta tolleranza dopo averlo massacrato e costretto a tutta una serie di compromessi per sopravvivere. O se vogliamo, sono gli stessi ultras che, dopo la fase di rifiuto giovanile e quella della crescita, hanno finito per adeguarsi alla società che teoricamente contestavano, considerando che dalle fila dei gruppi si sono visti uscire persino poliziotti ma nessun aderente alle Nuove BR o altre entità sovversive. Onestamente ritengo presuntuoso nel 2019 assegnare patenti di rivoluzionari a delle persone che in buona sostanza, pagano un biglietto per assistere a quello che è nulla più che uno spettacolo di intrattenimento. Però ritengo sarebbe altrettanto ingiusto non riconoscere il conflitto esistente e ancora in atto in tante piazze, laddove gli ultras hanno operato occupazioni di spazi abbandonati convertendoli a fini abitativi o sociali; scendendo in piazza contro il daspo urbano o la repressione in atto nella città; protestando contro chiusure di reparti o ospedali interi, discariche o altri grandi appalti utili a chi se li aggiudica e quasi mai a chi li ospita nelle proprie aree urbane. Diciamo che quel grande spazio di autonomie, di idee, di elaborazione di nuove pratiche sociali e di resistenza all’omologazione che era la curva fino a qualche decennio fa è in fortissima deflessione, ma c’è chi localmente continua nel solco di quelle esperienze, come può e fin quando può.

Venendo agli ultimi casi di cronaca, quello in corso, fra l’omicidio di un ultrà varesino prima di Inter-Napoli e i vari arresti nella curva della Juventus – arresti che hanno scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora dai contenuti inquietanti – si può già definire un annus horribilis per il movimento ultras. Come contestualizzare e come interpretare quanto accaduto? Possibile causa di un effetto slavina imminente o conseguenza di politiche pregresse?

Su Inter-Napoli davvero non ci sono parole. Ogni qual volta si pensa che gli ultras possano aver tratto la lezione definitiva e imparato dal proprio madornale errore, ci si ritrova a rivivere nell’ennesimo kafkiano loop e ricominciare daccapo a ripetere gli stessi fatali sbagli. Spiace perché ci sono vite in ballo. Spiace perché riparte il solito stillicidio mediatico. Spiace perché nel tritacarne ci finiscono tutti gli ultras, colpevoli e innocenti. Così come pattume finisce per rivelarsi il deontologico codice non scritto di buone intenzioni, a quanto pare proverbialmente buono solo per lastricare la strada verso l’inferno.
A parte questo però, non credo sia lo stesso annus horribilis che si era vissuto con Sandri e Raciti. Il caso mediatico-giudiziario Juve per esempio, ha una tempistica sbilenca, sembra arrivare più per soddisfare il giustizialismo delle massaie di Voghera, indignate dalle ultime inchieste televisive. Questo perché, restando al fattuale, la società bianconera aveva da tempo sgombrato il campo da ogni rapporto equivoco, molto prima che il primo presunto scoop rivelasse l’acqua calda, più che scoperchiare il vaso di Pandora. Sono passati ormai diversi anni dalla messa al bando dei gruppi Viking e Bravi ragazzi dallo Juventus Stadium e gli ultimi arresti nulla aggiungono all’economia di quella vicenda fra bagarinaggio e infiltrazione ndranghetista. Anzi, hanno finito per coinvolgere impropriamente anche il presidente di Quelli di Via Filadelfia, un’associazione davvero al di sopra di ogni sospetto che da anni si impegna nella difesa della memoria dei morti della strage dell’Heysel, nella solidarietà attiva e nella promozione di un modello positivo di tifo. Ma evidentemente, pur avendo operato in massima trasparenza e senza appropriazioni indebite di tagliandi o denaro, non è sufficiente se si porta con sé lo stigma dell’ex ultras. Questa storia è a suo modo paradigmatica del resto del mondo ultras: al netto di responsabilità innegabili, lo si giudica comunque troppo spesso in maniera frettolosa e sulla base di pregiudizi stantii, non di rado confondendo carnefici e vittime. Al contrario di quel che si pensa, anche i tifosi sono sovente vittime di certe situazioni, per quanto il più delle volte finiscano per condannarsi da sé a quel destino

 

Intervista raccolta da Ivan Pezzuto