Diciamoci la verità: ognuno di noi, in materia di ripartenza del campionato di calcio, ha una propria opinione di come devono/dovrebbero andare le cose.
Ascoltando i pareri di diverse persone, che vanno dall’anziano incontrato al bar fino al collega sul posto di lavoro o l’amico di sempre, credo che si possano dividere le “fazioni” in due macrocategorie. Non necessariamente diverse fra loro, anzi con molti punti in comune, seppur con diversi orizzonti e modi di interpretare il calcio.
Alla prima fazione appartengono coloro che non vedono l’ora che il campionato riparta.
Questa opinione è dettata da una voglia di normalità, tanto desiderata sin da prima del periodo di quarantena, quando le morti per Covid19 erano all’ordine del giorno, e le sirene delle ambulanze lottavano per sovrastare il suono delle campane mosse a lutto.
Per gli appartenenti a questa categoria, la ripartenza del campionato scaverebbe un solco capace di distanziare un po’ quanto è successo dal continuare a vivere la vita e, perché no, di guardare anche più leggeri verso il futuro. Il solo parlare di calcio ed iniziare quei sani sfottò del lunedì mattina che sono parte integrante di questo mondo, equivale per loro a scrollarsi di dosso l’imposto isolamento, togliersi un po’ di polvere dalle spalle e piano piano, tentare di tornare alla normalità. Sia essa positiva oppure piena di incertezze, per il lavoro, i soldi ed ancora la salute.
Nella seconda fazione si posizionano coloro i quali ritengono che il calcio, in questo momento, non solo sia inutile come un faro in mezzo ad una pozzanghera, ma sia oltremodo offensivo anche solo il parlarne. La voglia di normalità non necessariamente deve passare dal ritorno al calcio giocato. Un po’ per le magre figure fatte durante il periodo peggiore per l’Italia dal dopoguerra ad oggi, da parte degli addetti ai lavori che prima si appellavano al bisogno di “normalità”, e, vedendo che la motivazione non attecchiva nella mente dei più, hanno modificato il proprio pensiero allineandolo al problema economico che la mancata ripartenza avrebbe dato alle povere persone che, con il calcio, ci sfamano la famiglia, siano esse un magazziniere o il bambino che cuce i palloni in Pakistan.
Grottesco il tentativo di far passare dalla parte del torto chi con la ripresa non era d’accordo, colpevole di non voler far ripartire il paese o forse più utile da strumentalizzare per avvalorare la propria posizione.
Se c’è un punto che accomuna però le due macrocategorie suddivise in precedenza, è la tristezza del calcio senza il suo motore principale, ovvero i tifosi.
Giocare in uno stadio completamente deserto, con quegli spalti privati del fattore principale che fa diventare 22 pirla che rincorrono un pallone degli eroici gladiatori, è quanto di più triste si possa vedere.
Con questo non si vuole affermare assolutamente che le persone debbano tornare ad accalcarsi nelle curve o riempire le tribune, ci mancherebbe, saranno virologhi o esperti di settore che detteranno i tempi affinché tutto si possa svolgere in sicurezza.
Ma ci si chiede se sia giusto ripartire con sagome di cartone invece delle persone reali. Se sia giusto ripartire con finti tamponi e finti infortuni. Calciatori che, già ora, vengono messi in quarantena per un infortunio muscolare. È evidente che ci sia qualcosa che non torna nei protocolli stilati per far svolgere la manifestazione in sicurezza.
E per mantenere quelle distanze di sicurezza che ancora si chiedono a commercianti dopo tre mesi di chiusura, imponendo loro di ridurre il numero dei coperti o delle persone che possono servire, come la mettiamo? L’unica soluzione potrebbe essere il divieto di marcatura a uomo. Vietare i calci d’angolo e applicare il fuorigioco a tutto campo; potrebbe essere un’idea, tanto assurda che pare strano non sia ancora venuta ai vertici del calcio.
Forse, così assurda non è, visto che nelle ultime ore si è sentito nell’ordine:
Ripopolamento degli stadi al 25%, con estrazioni e lotterie per chi possa vedere validato il proprio tagliando d’ingresso e distanziamento fra una persona e l’altra, alla buona faccia della discriminazioneTrasmissione della partita sulle pay-per-view con possibilità di sentire il finto sottofondo di tifosi con tanto di cori politically correct, opportunamente scelti dalla regiaPossibilità, a pagamento, di avere la propria sagoma di cartone seduta nel posto assegnato allo stadio
Fra televisioni che pretendono di comandare (e lo fanno!) anche dove non dovrebbero, e dirigenti che pensano solo al proprio tornaconto personale, si prospettano tempi duri per gli amanti del gioco del calcio. Avanti così, al grido di “giochiamo per la gente”. |