Difficile raccontare gli ultras in questo periodo storico in cui, per via della pandemia, il calcio è stato mortificato nel suo aspetto più bello, che è quello della socialità. Questo tanto in campo, dove per ovvie ragioni sono venuti meno tutta una serie di riti più simbolici che pratici (strette di mano, terzo tempo, ecc.), quanto soprattutto sugli spalti, chiusi a doppia mandata già dalla prima ora. E poco conta la recente parziale riapertura, sia che si parli di tifosi in genere o di ultras, visto che questa è stata intesa solo per assecondare la visione del tifoso come consumatore e non di certo le funzioni aggregative e sociali talvolta anche importanti. Chiaro che a queste condizioni i gruppi organizzati non potevano che rispondere con la linea “O tutti o nessuno”, a cui come sempre qualcuno può essersi pure accodato più per solidarietà che per necessità, considerando che il limite dei mille spettatori in talune categorie o realtà basterebbe ad accogliere non solo tutti gli ultras ma anche l’intero pubblico. Va però tenuto conto delle particolari contingenze storiche e dell’obbligo di osservare le disposizioni per limitare il contagio, ossia mascherina e distanziamento sociale. Cosa che non solo renderebbe difficile poter tifare normalmente, nell’impossibilità di far quadrato (o assembrarsi, per seguire il termine tecnico corrente) e intonare cori nel più efficace dei modi possibili, ma andrebbe soprattutto ad impattare con tutti gli aspetti socializzanti dello stare allo stadio insieme. Poi chi ha provato a ritagliarsi un piccolo spazio di manovra per farlo, dove possibile e come possibile, s’è dovuto scontrare con una chiusura ancora maggiore da parte delle forze dell’ordine, come capitato ai ragazzi di Pavia che si sono visti vietare striscioni, tamburi e bandiere con la motivazione del virus ed hanno perciò deciso di uscire pur se appena entrati, perché tutto sembrava assumere la parvenza di una scusa per giustificare o alimentare ulteriore repressione. A proposito di repressione insensata, e alla luce dei contagi che hanno costretto a chiudere precauzionalmente diverse caserme, resta da capire secondo quale logica abbiano chiesto agli ultras diffidati di andare ugualmente a firmare nonostante le porte chiuse. Sarebbe bastato un po’ di buonsenso. Serviva il buonsenso, ma evidentemente il buonsenso spesso latita quando si parla di ultras.
In questo scorcio di stagione, come testata, ci siamo potuti muovere poco o niente, ma ci è comunque capitato di poter seguire i tifosi dell’Austria Salisburgo, noti ai più per la loro amicizia con Udinesi e Barlettani o ancor più per le vicissitudini con la Red Bull, che ha acquistato e cambiato nome al loro sodalizio storico, costringendoli a rifondare la compagine e ripartire dalle categorie minori. A Salisburgo sono entrati ed hanno tifato in diverse partite, sempre nell’osservanza rigorosa dell’obbligo della mascherina e del distanziamento, su cui onestamente sono stati un po’ meno rigidi. I risultati, considerando tutto, sono stati davvero buoni, ma più che quest’altro tipo di approccio o esperienza, nello specifico è emblematico che, soprattutto in alcune trasferte, è stata determinante la sottoscrizione di un protocollo di norme contro la diffusione del Coronavirus che i tifosi ospiti hanno non solo e semplicemente accettato, ma a cui hanno anche contribuito nella stesura. Questo per dire del diverso apporto o della diversa considerazione dei tifosi che, laddove non relegati a vacche da mungere, sono i primi ad alimentare un circuito virtuoso.
Tornando allo specifico caso italiano, c’è da dire che i gruppi organizzati hanno mostrato molta maturità sin dall’inizio di quest’emergenza sanitaria. Di sicuro più delle istituzioni calcistiche il cui solo interesse si è poi palesato in quella ripresa forzata e sgangherata del campionato scorso e non di meno di quello attuale, altrettanto condizionato da tamponi positivi e squadre fermate dalle ASL prima di una trasferta. Tutto ciò solo per non vedersi ridurre gli introiti televisivi. Che poi gli ascolti delle tv a pagamento abbiano lo stesso registrato un crollo verticale è da un lato una prevedibilissima conseguenza e dall’altro una conferma che il calcio, senza la passione dei tifosi non è niente, e non lo dice solo John King nel suo romanzo più famoso, lo evidenzia benissimo anche la comprovata scarsa vendibilità del prodotto calcio in sé. Si spera che questa lezione possa far da monito a questi signori al fine di rimettere i tifosi al centro del progetto calcistico, ancora una volta va ripetuto non già come meri clienti ma soprattutto come parte sociale e valore aggiunto.
Oltre agli striscioni di semplice solidarietà teorica, i tifosi si sono adoperati anche fattivamentecon raccolta di denaro e materiale sanitarioper gli ospedali, come nel primo periodo dove la reperibilità delle mascherine era molto ardua: c’è chi ha rinunciato al rimborso del biglietto, dell’abbonamento o del viaggio della trasferta per destinarlo a chi ne aveva più bisogno, chi ha accantonato i soldi che avrebbe speso per una coreografia o per una partita imminente. Insomma, al netto di tutto, si sono visti assegni con cifre piuttosto importanti in giro. Senza contare chi ha messo a disposizione gratuitamente la propria manodopera per aiutare ad allestire gli ospedali da campo. E queste cose, non per alimentare quel vittimismo paranoide che spesso accompagna gli ultras, non ha certo trovato la stessa risonanza a livello mediatico di ogni pur minima scaramuccia che viene raccontata alla pari della sanguinosa battaglia di Leningrado.
A questa seconda fase gli ultras ci sono arrivati senza aver fatto la minima pressione affinché si giocasse, anzi hanno più volte ribadito di preferire un passo indietro per favorire un quanto più veloce ritorno alla normalità e con essa alla possibilità di tornare a vivere lo stadio a modo loro, senza restrizioni di sorta.
Nel frattempo, senza voler entrare nel merito di dinamiche politiche ed economiche di cui non siamo accreditati a parlare, si è tornato però a parlare di ultras in correlazione a tutta una serie di manifestazioni di piazza, pacifiche o meno, contro le nuove restrizioni che hanno accompagnato questa cosiddetta “seconda ondata”, a partire da Napoli e poi allargatesi a macchia d’olio in tutta Italia. Chiaramente i giornalisti non hanno mancato di agitare quello che Valerio Marchi chiamava “folk devil”, indicando ultras, estremisti di sinistra o destra come facili capri espiatori per non dover confessare più serenamente che le piazze, come sempre e per sempre, sono assolutamente eterogenee esattamente come il malcontento che vi serpeggia. Poi chiaramente ci sono soggetti che ci vogliono mettere il cappello sopra per evidente tornaconto, ma questo non cambia il senso generale delle cose. Così come non cambia che ci fossero ultras, commercianti, baristi, ristoratori, camionisti o qualsiasi componente sociale cittadina. Perché gli ultras sono cittadini come gli altri ed è normale e legittimo che possano scendere in piazza a protestare per cose che reputano ingiuste, come hanno fatto ai tempi per la discarica a Pianura o in alcune città per la dismissione di reparti o interi ospedali locali. Puntare il dito contro i soli ultras mentre un intero corpo sociale scende in strada è semplicemente un tentativo basso di delegittimare la protesta. Forse, ma ripeto, non vogliamo addentrarci troppo in campi che non ci competono, si dovrebbe più semplicemente cercare di comprendere i motivi di fondo del malcontento.
Come detto prima, l’atteggiamento delle tifoserie organizzate è sembrato fin qui ineccepibile se non a tratti ammirevole per l’impegno direttamente profuso. Per la nota teoria dello specchio che usa le curve per raccontare la società circostante, dalla prima chiusura allo spettro odierno di una seconda, tolte le eccezioni che dovrebbero confermare e non invalidare la regola, la risposta dei singoli cittadini è stata ugualmente esemplare e forse possiamo pure non condividere, ma senza meno farci qualche domanda sulla legittimità della delusione di chi, dopo 7 mesi, si sarebbe aspettato di trovare le istituzioni pronte a rispondere alla recrudescenza del virus, non ad una nuova delega al singolo cittadino di farsi carico del problema, chiudendolo in casa senza aver prima investito massicciamente in trasporto pubblico, scuola, sanità. Mancando idee e iniziative valide atte a contrastare la situazione, come sempre, l’unica soluzione è additare un colpevole nel mucchio. Con le ultime manifestazioni di piazza è stato nuovamente il turno degli ultras, ma il recente passato aveva visto a giro salire sulla pubblica gogna prima i cosiddetti runner, poi i frequentatori di discoteche e locali notturni in genere, gli studenti, gli iscritti a piscine e palestre ma mai i grandi padroni d’azienda che hanno fin qui continuato a lavorare senza soluzione di continuità. La colpa è sempre di chi il potere lo subisce e mai di chi lo detiene. Paradossale. |