Un anno fa si giocavano le ultime partite con pubblico presente sugli spalti degli stadi. Da allora, il calcio italiano non è propriamente mutato del tutto ma ha dovuto fare i conti con alcuni cambiamenti, legati soprattutto alla sfera finanziaria, ed avrebbe avuto anche il tempo per provvedere ad alcuni problemi sui quali prima o poi dovrà intervenire.
È di pochi giorni fa l’analisi del presidente della FIGC Gravina, il quale ha stimato in circa 600 milioni le perdite per i soli club di A nelle annate 2019/20 e 2020/21. Cifre che fanno suonare il campanello di allarme e che sono frutto non solo di un mancato introito dalla vendita di biglietti, ma anche di un calo degli sponsor, in crisi per la pandemia e probabilmente anche meno interessati ad un campionato che, oltre ad aver perso veridicità, essendo giocato in arene vuote, ha visto anche un calo di spettatori. La soluzione proposta da Gravina, oltre a proporre un tetto agli ingaggi (ma solo per la serie A o anche per gli altri campionati maggiori?) e la realizzazione di nuovi stadi, sarebbe “[…] una gestione strategica più sostenibile sarà possibile favorendo la crescita della redditività delle squadre, semplificando l’accesso a nuove fonti reddituali – come i proventi dal betting […]”. (https://www.calcioefinanza.it/2021/02/17/serie-a-perdite-covid-gravina/).
Tablet alla mano per scommettere, sedili comodi e giocatori meno pagati e quindi attratti da migliori lidi, Premier in primis. Una prospettiva che forse diverrà reale ma che non cura molti mali. Il distacco dello spettatore abituale, ultras compresi, dall’ambiente stadio ha senz’altro incrementato la consapevolezza di una mediocrità nel gioco che affligge buona parte delle squadre del massimo campionato italiano.
Partite brutte e prestazioni poco soddisfacenti in stadi vuoti non hanno comunque fermato le (inevitabili) contestazioni da parte degli esclusi dal gioco del pallone, da parte dei tifosi e degli ultras. Abbiamo assistito ad una sorta di formalizzazione delle recriminazioni nei confronti di giocatori e proprietà; in tempo di stadi aperti, non solo dalle curve ma anche dagli altri settori dello stadio, le manifestazioni di diciamo disappunto nei confronti di una squadra al termine dell’ennesima sconfitta erano la norma. Ora tutto viene relegato a luoghi virtuali, i social, o agli striscioni, che però uno spettatore di distinti o tribuna non fabbrica solitamente. I rompiscatole sono quindi sempre quelli, sono accerchiati, i loro pensieri su carta li relegano nel girone degli infedeli alla squadra. E le parole, attenzione, vanno scelte con cura: una volta scritte vengono analizzate e si individua se la colpa viene addossata agli undici che scendono in campo o alla società. A stadi pieni, questo taglio del capello, questa dissezione, questa manovra chirurgica era assai meno applicata, davanti ad una realtà fatta di impegno in campo e spettatori paganti e delusi sugli spalti.
In assenza di una sfera di cristallo, non sappiamo quando rivedremo gli spalti di nuovo gremiti (si fa per dire…); ma quel momento non sembra presente nelle menti di chi dirige il grande spettacolo del gioco del pallone. In serie A la “novità” si chiama VAR, e non è ancora stata democratizzata. Lo vedono l’arbitro e i telespettatori, ma chi sta sugli spalti? Quando si tornerà negli stadi ci si renderà conto che tutti questi mesi non hanno ancora formulato in maniera pratica una risposta a chi compra un biglietto per vedere una partita e non può seguirla facendosi un’idea chiara e precisa delle decisioni arbitrali prese a pochi metri da lui. Oppure Gravina ci sta suggerendo di smetterla di legarci solamente ai risultati e di prendere il calcio come un pretesto per recuperare un senso di collettività? |