NON C'E' FEDE SENZA LOTTA

LA GENESI DELLA REPRESSIONE

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IL MONDO ULTRAS ANDAVA CRIMINALIZZATO DA QUEL 2 FEBBRAIO QUALCUNO CI HA GUADAGNATO! VERGOGNA!

 

Il 2 febbraio 2007 a Catania si gioca il derby di Sicilia, tra la squadra locale e il Palermo. Previsto inizialmente per il 4 febbraio, in seguito ad una lettera del sindaco di Catania al ministero dell’Interno si è deciso di rimandarlo per la concomitanza con la festa di Sant’Agata. In molti auspicano ad un rinvio alla fine del mese, ma l’incontro viene anticipato per il giorno 2, con inizio alle 18.30. In avvio di partita partono i fuochi d’artificio predisposti in onore della contemporanea festa di sant’Agata, patrona di Catania.
I tifosi ospiti arrivano dieci minuti dopo l’inizio del secondo tempo per problemi organizzativi.
Fuori dallo stadio si verificano i primi scontri, con alcuni tifosi locali che tentano di entrare in contatto con la tifoseria ospite. A questo punto inizia uno scambio di lanci di petardi e fumogeni. La polizia tenta di disperdere i tifosi e vengono usati dalle forze dell’ordine, in due riprese, all’interno della curva nord, dei lacrimogeni, che generano il panico sugli spalti, dove migliaia di tifosi stanno assistendo all’incontro, ignari degli scontri che avvengono all’esterno. Una moltitudine di persone tenta quindi la fuga ma trova gli ingressi dello stadio sbarrati. Si crea una calca pericolosissima che provoca diffuse scene di isteria collettiva. La partita viene quindi sospesa per quaranta minuti dall’arbitro Stefano Farina per l’aria irrespirabile. Durante la fuga, molti tifosi di casa cercano di entrare in contatto con gli avversari: cominciano gli scontri veri e propri. Intanto la partita termina (vince il Palermo per 2 a 0) e, all’esterno dello stadio, decine di persone dal volto coperto attaccano le forze dell’ordine. Le immagini vengono trasmesse in diretta da Sky.
Si parla di uno schieramento imponente: 1.200 agenti. Alla fine, si contano 71 feriti tra le forze dell’ordine, più altrettanti civili. Vengono fermati la sera stessa una ventina di ultras. Di questi, nove vengono arrestati e quattro sono minorenni.
Contemporaneamente, si viene a sapere che l’ispettore capo del X Reparto Mobile di Catania, Filippo Raciti, è stato ucciso. In un primo momento la voce che circola è considerata falsa ma, successivamente, arriva la conferma intorno alle 22.
La causa della morte è da ricercare in un grave trauma interno del fegato. Vani sono i soccorsi ed il ricovero immediato all’Ospedale “Garibaldi”: l’uomo spira dopo tre quarti d’ora di agonia, per arresto cardiaco. Insieme a lui viene ricoverato un altro poliziotto, in gravi condizioni, ma non in pericolo di vita.

IL DECRETO AMATO
In seguito a questo evento, come sempre succede in Italia, quando accadono disgrazie di questa portata, l’unica soluzione urlata ai quattro venti, nei salotti televisivi, portata avanti da schiere di giustizialisti in un perbenismo dilagante e raccolta nelle stanze dei poteri legiferanti in materia di sicurezza negli stadi, risponde solo ed esclusivamente ad una ulteriore e sempre più asfissiante repressione nei confronti del mondo delle curve e del tifo organizzato.
Tutte le leggi speciali, infatti, che negli anni si sono succedute, non hanno risolto il problema della violenza, ma sembrano, più che altro, volte ad ostacolare la libertà d’espressione e di movimento del tifo da stadio. L’inasprimento di pene già spropositate, se rapportate al contesto in cui sono applicate ed in base ai reati commessi, come l’arresto in flagranza differita e l’uso spropositato di strumenti come il daspo, da molti considerato incostituzionale, a cui si aggiungono il biglietto nominale , il divieto d’acquisto nella città ospitante del tagliando in trasferta, costituiscono le ultime trovate partorite dal decreto Pisanu, precedente ai fatti narrati. E’ questa dunque la situazione contingente in cui si svolge la vicenda. Il tutto, ovviamente, non accade a caso, ma favorisce il crescente business del calcio che, ormai, affonda le sue fondamenta nello spettatore televisivo e sempre meno nel tifoso da stadio, con lo scopo di trasformare definitivamente quest’ultimo in un vero e proprio cliente. Quello che esce fuori, nell’immediatezza di quei giorni, dopo i fatti di Catania, è qualcosa di ancora più spaventoso, se possibile, giuridicamente parlando: il cosiddetto Decreto Amato. Nonostante ipocrite rassicurazioni sul presunto cambiamento del modo di affrontare il problema da parte dello stato e la volontà di ricercare una soluzione definitiva al problema della violenza negli stadi, il decreto, di fatto, pone il veto finale su striscioni, bandiere, tamburi, megafoni e qualsiasi altro strumento di tifo e coreografico.
Tutto ciò che, fino a quel momento, ha rappresentato il pane quotidiano di ogni tifoso, ultras e gruppo organizzato, è adesso al vaglio delle autorità di pubblica sicurezza, alle quali bisogna chiedere il permesso per esporre un simbolo, introdurre uno striscione o una bandiera, rinunciare, quindi, al proprio modo di essere e di concepire il calcio, di vivere la partita di pallone, come si è sempre fatto, di generazione in generazione. Questa pratica di controllo totalizzante da parte delle istituzioni, smentisce, di fatto, il fine ultimo del decreto di legge stesso che, da un lato si propone di debellare il fenomeno della violenza, mentre in realtà, nega ad una determinata categoria di cittadini il diritto di esprimersi, usando quelli che da sempre sono i propri strumenti, senza che tra le due cose ci sia una benchè minima relazione. Chi legifera in tal senso dovrebbe infatti spiegare quale nesso ci sia nel vietare l’uso di un tamburo, di un megafono o l’esposizione di uno striscione che non ha contenuti che possano istigare alla violenza o creare turbative dell’ordine pubblico, con la prevenzione di eventuali disordini all’interno o nelle vicinanze di un impianto sportivo. Lo stesso decreto prevede, inoltre, l’introduzione della tessera del tifoso, che altro non è se non una ulteriore schedatura di massa per chiunque voglia mettere piede in uno stadio. Verrà ripresa ed introdotta in modo definitivo qualche anno più tardi, da un altro ministro, particolarmente attivo nel proporre ulteriori misure restrittive, in una sua particolarissima crociata anti-ultras: Roberto Maroni.
Un decreto, insomma, che uccide libertà costituzionalmente garantite, quali quella di espressione e di libera circolazione sul territorio nazionale.
Tutto questo cosa c’entra con la violenza?